Tommaso Carboni per “La Stampa”
Margarita Simonyan
«Bombardarli, bombardarli, non abbiamo altra scelta che bombardarli». Margarita Simonyan, la direttrice di Russia Today, parla in diretta sulla tv di Stato. La ascolta Vladimir Solovyov, uno dei falchi guerrafondai più noti della propaganda di Putin. «Si stanno preparando (gli ucraini) a riprendere la nostra Crimea, riprendere i territori che ora sono nostri», continua Simonyan. «Dio sa che non avremmo voluto farlo, ma (per fermarli) dobbiamo bombardare ogni giorno le loro infrastrutture. Bombe su bombe ogni giorno».
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Questo è il tenore delle conversazioni in una serata qualsiasi della tv russa. Ma c’è un passaggio interessante nel discorso della direttrice di Russia Today. Simonyan prosegue dicendo che conosce persone «nelle alte sfere politiche» che hanno paura. Paura che continuare su questa strada le farà finire in un tribunale dell’Aja, processate per crimini di guerra.
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Ma è un’ingenuità, secondo Simonyan. «Ecco di cosa bisogna aver paura, ascoltate me, bisogna aver paura di perdere, di essere umiliati, di tradire le nostre persone». È questa la catastrofe che spalancherebbe le porte dell’Aja, avverte la giornalista del regime. «Se perdiamo la guerra, allora sì, l’Aja, reale o ipotetica, si prenderà anche gli spazzini che puliscono i ciottoli delle strade dietro il Cremlino». Solovyov, rimasto in silenzio, a quel punto dice la sua: «Se perdiamo non ci sarà alcun tribunale, perché il mondo verrà incenerito». Incenerito dall'Armageddon atomico.
vladimir solovyov
Quest’atmosfera da apocalisse però - fa notare un articolo uscito sulla versione russa del Moscow Times - stride abbastanza con le ultime esternazioni dei veri piani alti del Cremlino. Il senso dell’editoriale è questo: da quando il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro Li Keqiang hanno definito "inammissibile" l’uso dell’arma nucleare in Ucraina, Putin e Medvedev hanno di colpo smesso di parlarne. “La retorica aggressiva dei vertici russi, che minacciavano il primo uso di armi nucleari da Hiroshima, improvvisamente è diventata silenziosa”, scrive il Moscow Times. “Dopo che Xi Jinping e Li Keqiang hanno dichiarato inammissibili le minacce nucleari, né il presidente Putin né il vice ministro del Consiglio di sicurezza Dmitry Medvedev hanno più pronunciato una parola sul possibile uso dell’arsenale atomico”.
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Poi il quotidiano produce un’utile cronologia degli eventi. Si comincia il 21 settembre, con Putin che avverte l’Ucraina e i suoi sostenitori occidentali di voler usare “tutti i mezzi disponibili” per proteggere i territori occupati dalla Russia. “Questo non è un bluff”, diceva Putin. E Medvedev gli faceva eco. Questa frase è sua, data 27 settembre: «La Russia ha il diritto di usare l’arma atomica se necessario, e la Nato non interverrà se la useremo contro il regime ucraino».
Medvedev parla ancora il primo novembre, nove giorni prima che l’esercito di Kiev entrasse a Kherson costringendo i russi alla ritirata. Ancora una minaccia: il "sequestro" dei territori russi, spiegava Medvedev, è la base per applicare la clausola della dottrina nucleare, che consente di colpire il nemico con armi atomiche. Ma questo solleticamento continuo dell’Armageddon ha evidentemente irritato la Cina. Al vertice ASEAN di metà novembre, il premier Li Keqiang ha cominciato a rimproverare la Russia. Secondo una ricostruzione del Wall Street Journal, Keqiang ha definito “irresponsabili” le minacce nucleari. Pochi giorni dopo il G20 di Bali: Xi Jinping incontra Biden e i due esprimono «disaccordo sull’uso delle armi nucleari in Ucraina».
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Questa ricostruzione serve soprattutto a una cosa, secondo il Moscow Times. Ricordare il fallimento strategico delle mosse di Putin. Lo zar voleva rendere grande la Russia sfidando l’Europa e gli Stati Uniti: invadere l’Ucraina per rafforzare il Russkij Mir (il mondo russo) e destabilizzare l’ordine della sicurezza occidentale. Ma il risultato è stato quello di fare della Russia un gregario debole della Cina. «Le scelte di Putin hanno aumentato la dipendenza nei confronti della Cina fino al vassallaggio», scrive Alexander Gabuev, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace, in un articolo per Foreign Affairs.
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In epoca sovietica Mosca vedeva Pechino come un "fratello povero". Oggi, conclude Gabuev, l’orso russo è diventato un “junior partner” cinese.
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