Malcom Pagani per “Vanity Fair”
«Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia».
Francesco De Gregori
francesco totti
In spiaggia, da adolescente, baciando una sconosciuta in una notte di luna piena. In motorino, con un casco integrale, per osservare di nascosto la città in cui gli era impossibile persino camminare. In una piazza dell’Appio Latino all’epoca in cui l’altezza ingannava: «Mi chiamavano gnomo» e il talento nei piedi di un biondino dall’identità ancora ignota lasciava senza parole i ragazzi più grandi. Tutte le volte in cui Francesco Totti ha incontrato la felicità lo ha fatto dimenticando di essere Francesco Totti. Per chiedersi se avrebbe voluto un’altra vita, forse, è troppo tardi.
Per mettere in sequenza ricordi, miracoli e battute dal giorno in cui Giovanni Paolo II lo baciò sulla testa in Vaticano: «Mia madre mi chiamava il prescelto», un film, meglio se bello, può bastare.
Sul più laico dei santi per acclamazione e sul più santo dei laici per ascendenza (un tipo che sorride spesso, che sa come prendere in contropiede i pregiudizi che lo accompagnano:
enzo francesco totti
«Non mi faccia domande troppo lunghe che sono circonciso» dice, per poi aggiungere: «scherzo, lo so che si dice conciso, il problema è che quando faccio battute del genere le persone pensano che non lo sappia sul serio», uno che precede o intervalla ogni sua frase con “Con tutto il rispetto” o “ti dico la verità”), ci voleva qualcuno che una verità sull’amore tra Totti e la sua storia provasse a cercarla. Così, con sentimento mistico e mano ferma, poesia e palloni arancioni sgonfiati davanti all’Adriatico, allo scopo, è arrivato Alex Infascelli.
enzo francesco totti
Ha scandagliato da palombaro gli abissi della memoria, recuperato i super 8 di famiglia, spinto l’oggetto della sua indagine a superare i pudori e raccontarsi come mai aveva fatto in precedenza. Più che un documentario, una seduta di psicanalisi. L’incontro tra due universi distanti che diventa scambio profondo e relazione trasformando Totti e mutandone definitivamente l’immagine alla quale ci aveva abituati. Introspettivo e profondo.
Sentimentale e duro, senza mai perdere la tenerezza. Va da sé che Mi chiamo Francesco Totti denudi segreti rimasti nell’ombra e metta in risalto l’essenziale, quel che resta quando le luci si sono spente, le magliette sono in una teca e i gol recitano da statistica: la commozione: «Dopo i titoli di coda ha pianto anche Ilary che è molto più brava di me a controllare le emozioni e rimase impassibile anche nel giorno del mio ritiro».
totti capello
Agostino Di Bartolomei diceva: “Parlo poco perché penso che gli altri non siano poi così interessati a quel che dico”. In trent’anni, lei ha rilasciato pochissime interviste.
«Non sono egocentrico. Non sono uno a cui piace parlare, che sogna di apparire o che smania per stare davanti alla telecamera come tanti altri. Preferisco fare tre passi indietro, nascondermi, sparire, se è possibile. Sa come ragionavo da calciatore?».
Come?
«Al mio posto doveva parlare il campo. Andare in conferenza stampa non mi gratificava, dire “ho fatto questo e quello” ancora meno. E agli altri in fondo andava bene».
FRANCESCO TOTTI E ILENIA MATILLI
Come mai?
«Perché con me c’era sempre un rischio. A me piace scherzare, essere ironico e sdrammatizzare, ma dietro una battuta c’è spesso la verità. E la verità certe volte era meglio non esprimerla. Dire quello che sapevo o che pensavo avrebbe creato problemi. Avrei fatto solo danni: a me stesso e alla società. Preferivo evitare».
Ora invece dopo il fortunato libro con Paolo Condò, anche un film.
«Esistono i momenti. Quelli giusti e quelli sbagliati. Adesso sono libero, sono felice, ho fatto pace con me stesso e posso dire quel che voglio».
pietro castellitto totti
Prima non era così?
«Per anni ascoltare tante cose false sul mio conto mi ha fatto soffrire. C’erano momenti in cui per smentire le bugie che raccontavano sui giornali, in radio o in tv, sarei andato in guerra. Sono un permaloso. Come dicono a Roma, un rosicone. C’era gente che mi aveva visto dove non ero, gente che raccontava storie assurde, gente che godeva a mettere zizzania. E quando inventavano una balla su di me, impazzivo».
Poi cosa è successo.
«È successo che mi sono abituato, che sono diventato maturo e che ho capito che il mondo è fatto così. Chiunque dice la sua, vera o non vera e ognuno si fa una propria idea. È la democrazia, ma non mi tocca più e anche se è brutto dirlo, di quello che dice la gente, se è in malafede, ormai non me ne frega più niente».
pietro castellitto totti
Cosa è davvero importante per lei?
«Oltre i figli, la famiglia, le cose che contano davvero?».
Oltre.
«La parola data. Non servono firme, contratti o avvocati. Basta una stretta di mano. Basta guardarsi negli occhi. Certe cose me le hanno insegnate fin da quando ero bambino e io a certe cose credo ancora».
Quante volte l’hanno mantenuta con lei?
«Negli ultimi anni poco. Ho ascoltato tante parole, tante promesse e visto pochi fatti. È vero che cerco anche di ridere di me stesso, ma non sono stupido e a essere preso in giro non ci sto».
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Ha imparato presto a ridere di se stesso?
«Ho imparato tardi. Non le ho detto che ero permaloso per caso: lo ero davvero. E non conoscevo né l’ironia né l’autoironia. Recriminavo su tutto. Poi ho avuto un incontro che mi ha cambiato la prospettiva delle cose. Qualcuno mi ha suggerito che l’ironia che mi avrebbe reso l’esistenza più leggera e poteva essere un’alleata in più».
Un incontro con chi?
«Con Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. Due persone che non mi tradirebbero mai. Furono bravi a farmi capire che da un atteggiamento diverso nei confronti della pressione avrei potuto trarre solo giovamento. Gli diedi retta e non dico che da quel giorno mi sia cambiata la vita, ma quasi. Sono completamente diverso da ieri, sto meglio, ho meno rabbia in corpo. Ero uno che tendeva a somatizzare e poi all’improvviso faceva scoppiare la bomba. Lo so, è un difetto, ma io di difetti ne ho tanti».
totti scala
Dicevano che fosse presuntuoso.
«Ne ho tanti, ma non sono avaro, anzi se posso darti una mano te ne do due, né presuntuoso. Se sbaglio sono il primo ad alzare la mano per dire “ho fatto una cazzata”. Non ho mai pensato “sono Totti e quindi ho sempre ragione”, cerco sempre di capire dove sbaglio e come posso sbagliare il meno possibile».
«Si cresce» mi ha detto prima.
«Andando avanti acquisisci esperienza e razionalmente capisci che alcune cose che hai fatto a vent’anni non le rifaresti, sotto tanti punti di vista».
E le altre?
«Le dico la verità: le altre, anche se erano stupide, invece, le rifaresti tutte».
Quali?
francesco totti
«Se vuole le più sciocche, ma anche le più inoffensive e le più naturali quando hai tredici anni e la tua vita scorre in mezzo alla strada. Com’è stata bella la mia infanzia per strada. Mia madre mi urlava “hai fatto i compiti?” dalla tromba delle scale e l’eco del mio sì, si confondeva sotto i passi della mia corsa. C’era una vera urgenza di vivere e anche, come è ovvio di fare delle cazzate.
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Suonavamo ai campanelli e scappavamo, tiravamo gavettoni d’acqua agli autisti degli autobus che d’estate viaggiavano con il finestrino aperto, si infuriavano, ma non potevano fermarsi. La differenza tra il mio tempo e l’epoca di mio figlio, oggi, la vedo tutta».
Ha nostalgia?
«E come fai a non provarla? Non avevamo niente e ci sembrava di avere tutto. Passavamo le ore a giocare a nascondino, a esultare per una partita a biliardino o a inanellare record al flipper del bar sotto casa. Cercavo le monete in tasca per un gelato da 500 lire e scoprivo di potermi permettere solo i più economici, il Lemonissimo, il Magic Cola o l’Arcobaleno, roba che costava la metà».
I soldi sono stati importanti?
«Soprattutto quando sei giovane, i soldi ti cambiano totalmente la vita. Cominci a pensare in grande e trovare una misura è complesso. Il primo assegno cospicuo lo ricevetti di venerdì: troppo tardi per poterlo cambiare in banca. Lo covammo in famiglia, come un uovo, fino al lunedì mattina».
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Come spiega a suo figlio i rischi di essere un privilegiato?
«Provo a passargli i principi con i quali sono cresciuto e a spiegargli che diventare uno stronzo è semplicissimo. Spero che faccia le sue sciocchezze, ma le faccia con la testa perché se un ragazzo cade, dopo, puoi solo mettere una toppa. Ce ne sono di bravissimi e sono tanti, ma rispetto ai 14enni di oggi noi eravamo degli ingenui, dei veri bambacioni.
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Tornavi a casa dopo aver dato un bacetto “a stampo” o sulla guancia e ti facevi i film per giorni. Oggi, se ti rendi conto del grado di consapevolezza dei 12enni, ti metti le mani nei capelli, ti spaventi ed è meglio se ti fai il segno della croce. Ragionano proprio diversamente da noi e rispetto alla mia gioventù è più facile perdersi».
Diventare un campione richiede sacrificio?
«Mi sento fortunato. Ogni bambino ha un suo sogno: io speravo di realizzare il mio. Ho fatto sacrifici senza i quali il sogno sarebbe rimasto tale. Mia madre mi veniva a prendere a scuola, mi portava agli allenamenti e guidando mi interrogava sulle lezioni del giorno dopo mentre tra un panino e una curva cercavamo entrambi di non perdere un solo secondo.
francesco totti foto mezzelani gmt023
I tempi erano stretti, andavamo di fretta a la vita scorreva tra il campo e il sedile di una macchina. Cercavo di tenere tutto insieme, ma a volte crollavo addormentato. Mamma continuava a parlare, ma magari parlava da sola».
Cos’è la libertà per lei?
francesco totti foto mezzelani gmt021
«Un privilegio di cui non ho goduto. Tra ritiri, allenamenti e partite non è che negli ultimi trent’anni ne abbia avuta tanta. Qualche giorno di vacanza tra giugno e inizio luglio, molte limitazioni, zero vita privata. I sabati sera me li ricordo tutti: i miei amici uscivano per andare al cinema o in discoteca e io restavo in casa aspettando che la mattina dopo ci fosse la partita. A quell’età nessuno può dirti se ce la farai: esistono solo i dubbi, i punti interrogativi, le scommesse».
Che bambino è stato?
«Un bambino timido, introverso, a volte spaventato. Mio padre lavorava in banca e mia madre faceva la casalinga.
ilary blasi a montecarlo 2
Ogni tanto usciva per fare la spesa e restavo solo. Alzavo al massimo il mio telefilm preferito e fingevo di essere morto perché pensavo che se fosse entrato un malintenzionato nell’appartamento, vedendomi così, mi avrebbe lasciato stare. Poi mamma tornava e io mi sentivo fiero, come un eroe che ha superato la sua prova più difficile».
Un calciatore è sempre solo?
«La strada di un calciatore è piena di solitudine perché è una strada che corre esterna alla realtà e parallela alla vita quotidiana degli altri. Cominci a viaggiare presto, a dormire da solo in ritiro, a mangiare cose che gli altri non mangiano. Sembrano piccolezze, ma mentalmente ti cambiano. Gli altri pensano “che bello” e tu vorresti rispondere: “sicuri?”.
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Quando da ragazzo dovevo partire con la Nazionale per andare all’estero, io non ci volevo andare. Una volta, in Giappone, era il 15 di Agosto, ebbi quasi una crisi. Dovevo andare a giocare il Mondiale Under 17, ma mi pareva di andare al fronte, staccarmi dal cordone, perdermi qualcosa, vedere dal finestrino dell’aereo le facce allegre dei miei amici intorno al falò davanti al mare».
Poi a volare ha iniziato lei.
«Eh, ma c’è voluto tempo. Ha presente il libro Open scritto da Moehringer? Ecco, mio padre aveva un carattere non troppo dissimile da quello del papà di Andre Agassi. Tra piazzette e cortili non c’era una comitiva che non giocasse a calcio. Era gente molto più adulta di me, che non avevo mai visto e lì, lontani dalla saracinesca che prendevamo a pallonate tutto il giorno, le regole d’ingaggio cambiavano. Eravamo in un terra di nessuno in cui i colpi proibiti erano la regola.
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Papà si faceva avanti e domandava “avete posto per lui?”. Quei ragazzi all’inizio non volevano neanche farmi provare. È normale. Hai il tuo gruppo, i tuoi amici e chi viene da fuori, magari con una scusa: “È piccolino, si fa male”, è sempre escluso. Papà insisteva, quelli cedevano e poi, iniziata la partita, fermavano tutto: “rifacciamo le squadre, lo gnomo è troppo forte». Io zitto e muto, ma orgoglioso. Papà forse, ancora più di me».
A scuola era altrettanto forte?
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«Mi hanno bocciato in terza media e non ero un granché, ma in quell’occasione, le dico la verità, mi hanno fregato. A maggio era prevista una gita scolastica: io e tre miei compagni venimmo convocati per uno stage calcistico in Sardegna e rinunciammo al viaggio con la classe facendo saltare il numero legale per organizzarla.
I professori prima protestarono: “pensano più al calcio che alla scuola”, poi convocarono le famiglie e infine se la legarono al dito. Mi dissero: “sappiamo che il calcio ti porta via tanto tempo e così ti chiediamo di preparare qualche argomento a scelta”.
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Studiai tantissimo e la mattina dell’esame mi ritrovai davanti alla trappola. Cambiarono le domande chiedendomi cose sulle quali non mi ero minimamente tutelato. Avevo studiato Napoleone e mi interrogarono su Garibaldi e su Cavour. Provai a mettere insieme qualche mezza risposta, ma non feci una gran figura. Risultato: respinto. Io come i tre compagni che erano partiti con me».
Che ambizione aveva allora? Divertirsi? Emulare i campioni? Diventare il più forte?
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«Essere come Peppe Giannini, il capitano della Roma della mia giovinezza. Lo identificavo come il principe di Roma, il numero 10 per eccellenza, il fuoriclasse che aveva un padre, Gildo, che mi trattava come un figlio, mi coccolava e che aveva puntato su di me. Quando mi convocarono in prima squadra chiesi se era possibile dividere la stanza con Peppe. Me lo concessero. Era un sogno ad occhi aperti. Lì, nel letto accanto al mio dormiva la persona di cui avevo il poster in camera.
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Mi faceva effetto. Ero ansioso e non sapevo come comportarmi. Lo guardavo con la coda dell’occhio, e mi dicevo: “ma è vero?”. Lui si addormentava presto, al più tardi alle 22 e io per non svegliarlo praticamente smettevo di respirare. Avevo quasi paura di andare in bagno».
Come fu l’impatto con il mondo dei grandi?
«Ero tranquillo e sereno. Sapevo che dal primo all’ultimo, i compagni mi volevano un bene dell’anima. Con i ragazzi che si affacciano in prima squadra non è che accada proprio sempre: ma io mi comportavo bene. Andavo a prendere borse e palloni e nei primi tempi, mi cambiavo nello spogliatoio accanto, quasi per timore di disturbare. Nel gruppo i romani erano tantissimi, sicuramente mi agevolò anche questo».
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Andiamo alle origini: ricorda il primo gol?
«Mi sentii come i bambini a cui regalano la pista elettrica delle macchine. Avevo preparato un’esultanza sotto la sud dove ero stato tante volte a tifare, ma segnai sotto la nord e la dimenticai. Fu un momento di pazzia felice. Andavo a destra e a sinistra, avrei voluto le ali in quel momento».
Il talento. La dedizione. Cos’è più importante?
«È importante starci con la testa. Se la perdi non puoi fare quello che vorresti perché di se e di ma campano un po' tutti, ma arriva un istante in cui, sia nella vita privata che nel tuo lavoro, devi dimostrare quanto vali. Ho visto tanta gente dotata di un talento straordinario smarrirsi da un giorno all’altro. Pensi sempre che con il talento puoi superare ogni ostacolo, ma è un’illusione».
«Il calcio è una giungla e se non tiri fuori i denti ti divorano». Parola più, parola meno, la riflessione è sua.
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«Non so da fuori cosa si percepisca, ma dopo quasi trent’anni di calcio posso dire che in quel mondo devi tirare fuori gli artigli perché altrimenti è dura. Devi avere un carattere forte, pretendere tanto da te stesso. Rispettare gli altri e quando serve, farti sentire».
Johan Cruyff alle giovani promesse del Barcellona raccomandava: “Non bussate alle porte, sfondatele».
«Dipende da come bussi. Se bussi con timidezza è un discorso, ma se bussi per farti aprire le cose cambiano. Il suono è diverso, l’ascolto è diverso. Sono i denti di cui parlavamo prima, se non sono affilati non lasciano il segno».
Di lei dicevano che della Roma decidesse campagne acquisti, formazioni, allenatori.
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«Tutte cazzate. Non c’è un solo compagno o allenatore tra i tantissimi che ho conosciuto che possa dirmi in faccia “hai deciso, hai chiesto, hai preteso”. Camminerò sempre a testa alta perché mi sono allenato sul campo e non ho mai detto “fai giocare questo o fai giocare quello”. Non ho mai chiesto niente, a parte di poter vincere. È vero, volevo. Volevo giocatori forti come Buffon, Thuram e Cannavaro perché non avevo nessuna voglia di fare il bamboccio mentre gli altri festeggiavano. Qual è la colpa? Dov’è?».
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I denti di ieri oggi a cosa le servono?
«Servono a mozzicare la vita e a non farsi mozzicare dalla vita stessa».
Quanto è stato doloroso il morso del ritiro?
«È stato uno choc: sono un essere umano, una persona come tutte le altre. Rendersi conto di dover lasciare tutto quello che avevo fatto e che ero stato è stato durissimo. Un calciatore quando arriva a quell’età non vorrebbe mai smettere. Ti chiedi “E adesso? Adesso che faccio?”».
Cosa si è risposto?
«Che stavo bene e che avrei voluto e potuto continuare a giocare. A volte con Ilary, su questo tema, litigavo. Mi diceva: “Devi smettere, hai quarant’anni, inizia a pensare a cosa devi fare dopo”».
E lei ci pensava?
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«Io pensavo che avevo paura. Nel dare l’addio al calcio la mia paura era ignorare cosa ci fosse dall’altra parte. Era un altro tipo di lavoro: un conto è il campo dove potevo far affidamento sui miei mezzi, credevo in me stesso e per me era la cosa più semplice al mondo. Altro voltare pagina, fare il dirigente, nuotare senza braccioli. Le persone con cui parlavo per rassicurami mi ammonivano: “Guarda che la vita del calciatore e del dirigente è totalmente diversa”. E allora, invece di tranquillizzarmi, mi saliva l’ansia».
dino viola totti
Ora le è passata.
«Mi sono fatto coraggio perché è vero che sono timido, un aspetto del carattere che non cerchi né trovi, ma con il quale nasci, che non mi piace essere il primo della classe ma piuttosto l’ultimo e che sono come una tartaruga che sa chiudersi al momento giusto e poi tirare fuori la testa, ma per farlo devo sapere esattamente quello che faccio. Così ho cominciato a studiare, a calarmi nel nuovo ruolo, a rendermi conto che la vita era cambiata. E a trovare un equilibrio».
totti federer
Oggi di cosa ha paura?
«Solo di morire. È una paura che condivido con miliardi di persone. Prima o poi, purtroppo, tocca a tutti». (Sorride).
Daniele De Rossi sostiene che un calciatore inizi a pensare al ritiro già a 25 anni.
«Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma di certo non ci pensavo già a 25 anni. Ho iniziato a considerare l’ipotesi solo nell’ultimo anno. Nella stagione precedente avevo capito che non avrebbero voluto rinnovarmi il contratto: però poi ogni volta che subentravo cambiavo le partite e facevo gol.
CAPODANNO ALLE MALDIVE - MAURO ICARDI - EZIO GREGGIO - PIEFRANCESCO FAVINO - FRANCESCO TOTTI
Dopo quella con il Torino, dove entrando a 4 minuti dalla fine ne feci due, me lo rinnovarono a furor di popolo. Mi sarei dovuto ritirare in quella sera perfetta, dopo l’apoteosi, come mi suggerì Ilary e ci pensai anche. Poi dopo una notte insonne decisi di continuare, ma il rapporto con lui purtroppo era già compromesso». (In tutta la conversazione Francesco Totti non citerà mai per nome Luciano Spalletti, il tecnico con il quale, nell’ultimo anno di carriera, le relazioni saranno pessime nda).
Il rapporto con Spalletti iniziò a compromettersi l’anno prima.
CAPODANNO ALLE MALDIVE - FRANCESCO TOTTI E ILARY BLASI
«Voglio fare una premessa: l’allenatore sceglie chi mettere in campo in assoluta autonomia. È giustamente padrone delle decisioni e io non mi sono mai permesso di metterle in discussione né di contestarle. Poi c’è un discorso di umanità e lì le cose cambiano. Più mi impegnavo, più lui cercava la rottura, la provocazione, il litigio o il pretesto. Capii in fretta che in quelle condizioni proseguire sarebbe stato impossibile. Così, per la prima volta in 25 anni di Roma, tra Gennaio e Febbraio mollai».
francesco totti
Come ci si sente a mollare? Zico diceva che Un calciatore muore sempre due volte e che la prima è quando smette di giocare.
«Ti senti perso, ti senti scarico, senti che stai perdendo una cosa tua che hai sempre vissuto in prima persona. Ci mettevo l’anima, ci mettevo il cuore e non saltavo un allenamento, ma vedevo che dall’altra parte non c’era né reazione né risposta. Così mi lasciai andare e quando ti lasci andare è finita perché la testa sovrasta il fisico, sovrasta le motivazioni, sovrasta tutto».
Ma in quel crepuscolo i compagni non le stavano vicini?
«Alcuni sì e altri no. Temevano la reazione del mister, che potesse dire: “Voi state con lui”. È triste? È brutto? Purtroppo è umano e i rapporti fraterni nel calcio sono ben pochi. Quell’ultimo anno comunque fu un incubo. Mi vedevo superare da giocatori che magari non si allenavano per tutta la settimana e poi la domenica erano in campo.
totti spalletti
Ed erano segnali che sapevo leggere molto bene perché da quelle cose ero passato anche io. Semplicemente, non ero preso in considerazione e la cosa faceva doppiamente male perché lo stesso allenatore quando ero più giovane mi faceva giocare anche con una gamba in meno. In quei giorni iniziai a ripensare a come si comportava agli inizi, quando ero il capitano, il simbolo, il giocatore indiscusso. E capire che mi stavano dicendo “hai quarant’anni, fatti da parte, non rompere i coglioni” mi fece male».
È vero che tra voi rischiaste lo scontro fisico?
«A Bergamo ci andammo pelo pelo e mancò davvero poco. Per fortuna non è successo».
totti spalletti
Oggi gli stringerebbe la mano?
(Silenzio, poi un lunghissimo eehhh). «Nel calcio si sbaglia, sbagliamo tutti. Diciamo che dovrei capire in che luna sto quel giorno, come mi sveglio, se sono di buon umore».
Farebbe mai l’allenatore?
«Sarebbe impossibile. Impazzirei. Sono uno che vuole sempre il massimo e pensa che certi errori in serie A non si possano fare. Dovrei diventare severo, aspro, antipatico. Se non ci nasci, figlio di mignotta, non ci diventi. Puoi alzare il tono di voce finché vuoi, ma quello che sei alla fine sei e io so che sono troppo buono. Poi avrei un problema: vorrei sicuramente far giocare tutti. Sono stato calciatore, so cosa pensano del tecnico quelli che vanno in panchina».
totti spalletti
Il suo domani è nella Roma?
«A oggi non ci penso. Ho una agenzia di scouting, curo i ragazzi, mi diverto. Sono contento e faccio quello che mi piace».
È stato difficile essere un mito?
«La verità? Da una parte ti lusinga, ma dall’altro ti limita e può rivelarsi veramente pesante. Dal Nella vita privata ti costringe a cose impossibili. A Via Vetulonia, dove ero cresciuto e mi volevano bene, si mettevano fuori dalla porta e ogni tanto si portavano a casa anche lo zerbino come reliquia. Era piacevole, ma anche invivibile e non avevi un solo secondo della tua vita in cui potevi essere libero o nasconderti».
TOTTI COSTANZO
Oggi?
«Pensavo sarebbe andata meglio dopo il ritiro ma mi sbagliavo. Esistono i tempi e i modi, anche per un selfie e io sono abbastanza disponibile. Ma spesso la gente non capisce: è tutto normale e tutto dovuto. Perché hai i soldi, perché sei famoso, perché sei un ex giocatore e devi metterti a disposizione per forza: se fai 99 foto e il centesimo lo molli, quell’uno ti sfonda. Per me anche andare a cena in un ristorante è un’impresa».
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Racconti.
«Una sera, ero a cena con degli amici, fuori da un locale si riunirono migliaia di persone. Uscire sarebbe stato imprudente. Così cercammo una via di fuga alternativa, scavalcammo la recinzione sul retro e dopo aver superato gli spunzoni di ferro ci lanciammo nel vuoto atterrando in un prato. Avremmo potuto trovare cani da guardia o cocci di bottiglia, era buio pesto, ma ci andò bene. Il terreno era di una parrocchia. A un certo ci venne incontro un prete, se avesse avuto una pistola penso che ci avrebbe sparato. “Chi siete?” disse e poi a un certo punto gli si disegnò in volto una sorpresa: “Ma tu sei Totti!”».
Lo sarà per sempre. Nel calcio italiano di oggi uno come lei potrebbe fare ancora la sua figura?
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«Se le dico di sì ci crede? Allora glielo dico. Potrei. Magari non per tutte le partite, ma potrei. Crede che Ibrahimovic corra come ieri? No, ha 39 anni eppure regge l’attacco del Milan. Non c’è pallone che non passi tra i suoi piedi».
Sogna ancora calcio di notte?
«A volte sì. A volte sogno il passato, a volte il futuro».
Alan Kay, uno degli inventori del computer portatile, sostiene che il miglior modo di predire il futuro sia inventarlo. Lei ne ha voglia?
«Se posso inventarlo come dico io, sì».
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totti in versione vasco alla festa di compleanno in maschera della sorella di ilary