Achille Bonito Oliva per “la Repubblica”
munoz the wasteland
La scultura è un genere che vuol essere perdonato per la sua occupazione di suolo pubblico o privato. Quella contemporanea ha cercato un’intesa con i contenitori entro cui andava ad abitare, provvisoriamente o definitivamente. L’Hangar Pirelli Bicocca è senza dubbio un luogo di prova estrema per dimensione e architettura d’interni. Un luogo che richiede una regia, una scrittura espositiva capace di trascinare lo spettatore in un esteso percorso. Dunque al posto delle parole le opere.
Qui a scrivere in maniera magistrale è Vicente Todoli che ha curato la grande mostra Double Blind & Around di Juan Muñoz (fino al 23 agosto). L’artista spagnolo (1953-2001) è stato uno dei maggiori scultori dell’ultimo ventennio e la mostra ne ripercorre in maniera esaltante i diversi momenti tra installazioni e sculture. Quindici stazioni che obbligano lo spettatore a una meravigliata sosta The Wasteland, due gruppi della serie Conversation Piece, sei Hanging Figure e il gruppo Many Times composto da cinquanta figure.
many times munoz
L’allestimento sviluppa un cortocircuito tra lo spazio espositivo e le figure immobilizzate nelle pose di un silenzioso dialogo tra loro. The Wasteland ( 1986) e Waste Land ( 1986) sono intrise di umori letterari per i riferimenti a La terra desolata di T. S. Eliot, poema scritto tra il 1915 e 1922 che descrive il senso di spaesamento e distruzione prodotto dalla Prima guerra mondiale.
Altro riferimento è al Barocco per i pattern geometrici, le illusioni ottiche di un esteso pavimento che richiama anche il Minimalismo per la sua superficie modulare tra ripetizione e oggettualità. Il perturbante delle due installazioni è la figura di un pupazzo evidentemente ventriloquo su una mensola di metallo, con i piedi penzolanti nel vuoto e su un muretto di piccole dimensioni.
juan munoz
Il pupazzo rappresenta la prima figura antropomorfa del grande scultore scomparso che gioca tra il tranquillante della ri- petizione modulare del pavimento e il perturbante del pupazzo che sembra fare la guardiania del vuoto. Tra bronzo, linoleum, e acciaio in dimensioni variabili.
Comunque prevale sempre un’idea di confine e distanza tra la scultura e lo spettatore. In Conversation Piece (1996) un gruppo scultoreo di cinque figure di resina e polistirolo sembra mettere in scena una movimentata conversazione tra cinque soggetti, con tratti asiatici e rigorosamente grigi, in una dimensione complice e pure separata dallo sguardo dello spettatore. Questi viene escluso anche per dimensione.
conversation piece munoz
Gli omini si presentano in una misura ridotta e la parte inferiore del corpo sembra ingabbiata in sacchi di sabbia. Una rappresentazione sicuramente antinaturalistica sottolineata da una postura che comunica scambi sociali e senso del gioco. In ogni caso prevale sempre l’indicazione esplicita della soglia, una distanza tra l’opera e lo spettatore irrevocabile. Da qui la forte tentazione dell’artista di calcare ogni raffigurazione, riprendendo anche l’iconografia di Velázquez nella rappresentazione del nano.
Evidente diventa il catalogo che nei titoli descrive la posizione delle diverse figure appese nello spazio: Con la corda in bocca (1997), Hanging Figure (1997), Two figures one laughing at one hanging (2000), Figure Hanging from One Foot (2001), Hombre Colgado de la Boca (2001). Naturalmente facile è il riferimento all’Espressionismo e alle sue distorsioni fisiognomiche. Ma in questo caso l’artista intende sottolineare l’estraneamento della figura rispetto al quotidiano dello spettatore.
MUNOZ HANGAR BICOCCA 2
Qui la scultura volutamente non acquista mai l’imponenza della statuaria. L’uso astuto della piccola dimensione segnala ancora una volta la separazione tra mondo reale e l’immaginario solitario dell’artista che crea dei veri e propri teatri del silenzio. In Ventriloquist Looking at a double Interior (1988-2000) rappresenta il calco di un pupazzo ventriloquo che osserva due tele appese di fronte.
Per la prima volta dopo quattordici anni è stata ricostruita all’Hangar Bicocca Double Bind ( 2001) dopo la presentazione alla Tate Modern di Londra. L’immensa opera è formata da tre livelli che dividono l’intero spazio in maniera verticale. L’impressione è di essere entrati in un enorme garage sotterraneo.
MUNOZ HANGAR BICOCCA
Due ascensori scendono e salgono ossessivamente senza alcun carico all’interno, ma danno ritmo e luce all’horror vacui. Lo spettatore può salire su un balcone e da qui contemplare l’intera opera orizzontale. Ai suoi occhi si presenta un’ampia distesa di quiete forme geometriche. Percorrendo gli spazi, lo sguardo inciampa sui buchi che punteggiano la superficie dentro cui si sospettano dei veri e propri condomini. Viste d’interni misteriosi tra finestre chiuse e qualche apparizione che segnala spaccati di vita quotidiana.
L’intreccio tra scultura e architettura crea una serena stanzialità per i diversi personaggi che abitano senza alcun disagio lo spazio entro cui sono collocati.
MUNOZ DOUBLE BIND
Many Times ( 1999) rappresenta nella scultura di Muñoz quella a numero variabile: gruppi di cinquanta o di cento a seconda del contenitore. Nell’ultima sala incontriamo una folla di personaggi sempre fatti con lo stesso materiale, colore e fisiognomica. Un ghigno attraversa i volti orientali di tutte le figure, disposte in gruppi disseminati liberamente nello spazio. Il ghigno è un imprinting visibile di una solitudine seriale, sommata a uno smarrimento collettivo.
Nello stesso tempo sembra voler contaminare lo spettatore, garantito invece dalla distanza. È anche il sospetto di Juan Muñoz: «Lo spettatore diventa molto simile all’oggetto della sua osservazione, quasi che colui che osserva diventasse colui che viene osservato».