Paolo G. Brera per “la Repubblica”
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«Che ci andate a fare, là? Non c' è niente», barano i poliziotti ungheresi provando a fermare il mare con un dito. «C' è la foresta, tornate qui», insistono per un po' tentando inutilmente di far arretrare una madre e i suoi due bimbi, rimasta indietro quando l' onda dei profughi ha rotto l' argine delle divise e si è messa di nuovo in cammino verso la vita.
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Invece ottocento metri più in là c' è Roszke è un pugno di case precipitato in mezzo ai destini del mondo in fuga: un villaggio preso letteralmente d' assalto dal mare dei profughi in arrivo dalla Serbia: «I serbi li mettono sui pullman e li scaricano alla frontiera ungherese: sono ben felici di risolvere così il problema», dice una volontaria nel primo lembo di Europa che i migranti incontrano una volta superata la frontiera: quattro wc chimici e quattro cassonetti della spazzatura al bordo della radura, tra i campi e i binari del treno, tra una trentina di agenti, un paio di volontari e una decina di giornalisti e cameramen.
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In Serbia migliaia di esseri umani con la guerra alle calcagna premono per raggiungere l' Europa, e l' Ungheria ha paura di sperimentare sulla sua pelle l' onere che divide e strazia l' Italia da anni: essere la prima linea di un disastro umanitario che nessuno sa come contenere, figuriamoci risolvere. Così il premier Viktor Orbán, nazionalista e reazionario, ha avuto un' idea: spedire al fronte un corpo speciale di polizia, ben armato e dotato di cani antiprofugo, per pattugliare il confine lungo il quale sta completando la barriera di filo spinato in attesa del vero e proprio muro.
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Chissà se basteranno a fermare Tia e il piccolo Tarek. Lui ha quattro anni e lo sguardo fiero, lei otto e guida la marcia della sua famiglia: mamma, papà Moussà e gli zii. La loro storia è identica ad altre migliaia di storie: la vita sospesa nel campo profughi di Yarmouk, in Siria, poi la fuga attraverso la Turchia, il viaggio in mare, la Grecia, la Macedonia... «Ehi, lì è stato terribile: ci hanno presi a bastonate - racconta Ahmed, 23 anni - anche se non abbiamo praticamente messo piede nel paese, cercavamo solo di attraversarlo senza dare fastidio a nessuno. Una donna che era con noi ha perso il bambino, era incinta ma una bastonata gliel' ha ucciso».
Dopo la Macedonia la Serbia, che sbriga il problema facendo da transito. Vogliono andare in Europa? Non potendoli fermare, li aiutano. Ed ecco la frontiera con l' Ungheria. Partiti in pullman da Belgrado, a centinaia raggiungono Subotica, e da lì i confini.
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Cani e agenti, dice Orbán. Ma i treni devono transitare, e il binario che taglia i campi apre una breccia di dieci metri nel filo spinato. È lì che i poliziotti cercano di applicare le regole: accesso filtrato e regolarizzazione nei campi profughi, esattamente quello che nessuno vuole. Accettare di farsi identificare come profugo in Ungheria vorrebbe dire essere poi costretti a presentare lì la propria richiesta di riconoscimento della condizione di rifugiato politico. La convenzione di Dublino, che la Germania ha annunciato di voler sospendere per anelito umanitario, parla chiaro: dove approdi, lì rimani. Ammesso che la tua richiesta sia accettata, una prospettiva improbabile nell' Ungheria di Orbán.
Gli agenti aspettano al varco i profughi lungo la massicciata della ferrovia. In altre zone del confine, quelle protette dal filo spinato, chi ha tentato di passare è finito tra i manganelli degli agenti. A Roszke, invece, li aspettano lì, in trappola. Li identificheranno, e il sogno di arrivare nell' Europa del nord svanisce.
Così, ieri mattina alcune centinaia di ragazzi intrappolati ha alzato la voce, cercando di riavere almeno il fiato con cui raccontare al mondo, attraverso i giornalisti appostati lì davanti, la loro storia e le loro richieste. Sono partiti spintoni, e per riportare la calma sono arrivati i lacrimogeni. Ma tra i cessi chimici e i cassonetti.
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Due volontari di Migration Aid, dietro un cordone di agenti che provano a fare il volto buono del potere, spiegano loro che saranno portati in un centro dove avranno acqua per lavarsi, cibo e un letto. Di tanto in tanto arriva una corriera e porta via qualche famiglia, scortata al centro profughi di Roszke: un dormitorio di tende blu circondate da un recinto presidiato dalla polizia. Il volto buono del potere non c' è più. I giornalisti sono tenuti a distanza, i profughi temono di essere finiti per tutto il giorno, di tanto in tanto la tensione è tornata ad alzarsi, e all' imbrunire una decina di ragazzi ha saltato la recinzione è ha lanciato la fuga verso i campi, inseguita dagli agenti.
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La libertà è diventare invisibili. Sparire tra le pannocchie e le serre, disperdersi per continuare la migrazione verso Nord. «Voglio andare in Germania», dice un ragazzo con un bimbo di due anni a cavalcioni: «Non abbiamo alternativa, lì ci accoglieranno». Ahmed invece punta alla Svezia, «perché un amico ci ha detto che è un paese fantastico e perché lassù ci sono pochi arabi, mentre in Germania è già pieno».
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La settimana scorsa sono entrati in Ungheria 1500 profughi al giorno, ieri ne hanno contati 2.500. Dall' inizio dell' anno, nel paese di Orbán sono approdati 140.000 rifugiati. Il capo della polizia, Karoly Papp, ha varato un corpo di duemila uomini per pattugliare il confine con sei raggruppamenti e mezzi speciali: «Non avranno l' ordine di sparare », assicura. Bontà sua. Bastano gli sciacalli che offrono passaggi a tariffa, piccoli trafficanti di esseri umani in miniatura, a raccontare il peggio dell' Europa di frontiera.
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