Guido Santevecchi per “Corriere della Sera”
li keqiang davos
Di chi è la colpa se la Borsa in Cina ha perso il 40% in due mesi e mezzo? Chi è responsabile se la Banca del Popolo deve spendere miliardi per tenere stabile lo yuan, dopo la svalutazione a sorpresa? Nel dubbio, ieri le autorità cinesi hanno messo sotto inchiesta cinque grandi agenzie di intermediazione azionaria per «omissione di verifica dell' identità dei clienti secondo le norme e negoziazione illegale di titoli». Significa che i broker hanno consentito a qualche grande azionista di vendere, nonostante il divieto imposto dal governo nel tentativo vano di fermare la caduta del mercato.
Prendersela con le agenzie di brokeraggio, di fronte a circa cinquemila miliardi di dollari evaporati dalla Borsa, è assurdo. In Cina il problema è di politica economica, al massimo livello. E per i capi del Partito-Stato è un problema di faccia, di «mianzi», come si dice in mandarino: chi perde la sua mianzi è finito.
stretta di mano tra li keqiang e matteo renzi
I segnali a Pechino indicano che la caccia al capro espiatorio è aperta e può puntare molto in alto. Il presidente Xi Jinping ha creato grandi tensioni all' interno del sistema con la sua campagna anti-corruzione che è costata il posto (e il carcere) a oltre cento dignitari e almeno centomila funzionari e burocrati di medio livello. E si dice che qualche grande vecchio stia cercando di fermarlo: le voci sono arrivate sui giornali controllati dal partito comunista, che hanno definito l' opposizione «ostinata e feroce oltre l' immaginabile».
angela merkel xi jinping
Il «Quotidiano del Popolo» ha anche dovuto ammonire gli ex leader in pensione a lasciare ogni nostalgia per il potere e a starsene a casa «a raffreddare come una tazza di tè dopo che l' ospite se n'è andato». Se il potere in Cina funzionasse come in Francia, il presidente-imperatore avrebbe già liquidato il suo primo ministro. E in effetti qualcuno a Pechino dice che il premier Li Keqiang rischia il posto.
Le voci sono state raccolte dal «Financial Times» che in un articolo a firma «FT Reporters» ricorda come il sempre sorridente Li avesse escluso ogni ipotesi di svalutazione dello yuan e si sia fatto cogliere impreparato dalla caduta di Shanghai e Shenzhen. Oltretutto, Li Keqiang viene dalla fazione della «Lega giovanile comunista», che fino all' ultimo ha cercato di sbarrare la strada a Xi Jinping (esponente della cosiddetta nobiltà rossa).
XI JINPING - LI KEQIANG
Ma Pechino non è Parigi: licenziando ora il suo primo ministro, Xi ammetterebbe che il partito, al suo massimo livello, ha sbagliato rotta, commettendo errori nella direzione economico-finanziaria, proprio quella che con decenni di crescita ha garantito la legittimità di un governo comunista non eletto di fronte al popolo cinese (ma anche davanti alla comunità internazionale).
Un' altra ipotesi è che Xi e il Politburo aspettino la scadenza del primo dei due quinquenni di mandato, nel 2017, per trovare una via d' uscita dignitosa e avvicendare Li Keqiang.
Nel frattempo, il problema di chi incolpare ora per la crisi resta aperto. Da quando è al vertice, il presidente Xi ha fatto di tutto per presentarsi come il nuovo Deng Xiaoping, il grande riformatore pronto a rinnovare la Cina, facendola transitare dal grado di produttore ed esportatore di beni a basso costo a quello di grande mercato maturo, spinto da consumi interni e servizi.
SCOPPIATA LA BOLLA ALLA BORSA SHANGHAI
Nei primi due anni e mezzo di ricetta Xi-Li, la crescita è rallentata al tasso più basso da 25 anni: il 7%. Forse è presto per giurare che il miracolo cinese è finito. Ma c'è il problema della faccia: ancora a giugno i giornali statali invitavano i cinesi a investire in azioni e quando la Borsa ha cominciato a scendere (com' era inevitabile dopo essere cresciuta del 150% in un anno), il governo ha bruciato almeno 200 miliardi di dollari per sostenere i titoli. Come si è visto non è servito.
Poi, dall'11 agosto, Pechino ha dovuto spendere altri 200 miliardi in valuta estera per evitare che lo yuan si deprezzasse più di quanto incautamente pianificato. Ai giornali è stato ordinato di non usare nei titoli sulla Borsa parole come panico, crollo, tristezza; il «Quotidiano del Popolo» ha pensato bene di non parlare proprio di Shanghai e in prima pagina aveva l' economia del Tibet. Tutto per salvare la «mianzi» del partito.