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Maria Teresa Cometto per “CorrierEconomia-Corriere della Sera”
Wall Street non la ama più nessuno. Nemmeno le startup tecnologiche della Silicon Valley fanno più la fila per quotarsi alla Borsa di New York. A gennaio le Ipo (Initial public offering, offerte pubbliche iniziali di azioni) di matricole high-tech sono state infatti zero. Un altro sintomo del divorzio fra il mondo della finanza e le società innovative?
Il candidato presidenziale più popolare a Cupertino e dintorni è il Democratico Bernie Sanders, quello che promette le misure più dure contro le grandi banche d' affari: negli ultimi tre mesi del 2015 ha raccolto quasi 105 mila dollari dagli impiegati delle cinque maggiori aziende della Silicon Valley, da Apple a Google, più della rivale Hillary Clinton, battuta anche alle urne delle primarie proprio perché troppo vicina a Goldman Sachs&co.
Da tempo quello fra Wall Street e Silicon Valley è un rapporto di amore-odio. Ma ora sembra prevalere la sfiducia del polo californiano dell' high-tech verso le banche newyorkesi. Di certo si è inceppato il meccanismo tradizionale che portava i fondatori delle startup di successo dai dormitori di Stanford alla lista Forbes dei miliardari. Era un modello che prevedeva i finanziamenti dei venture capitalist per far partire il business e poi il debutto in Borsa per continuare a raccogliere liquidità fra un pubblico più largo, permettendo ai primi investitori di «uscire» con profitto.
PATRICK STEWART UNA BIMBA E UNA POLIZIOTTA DI BOSTON SUONANO LA CAMPANELLA A WALL STREET PER TWITTER
Gli esempi
L' esempio più appariscente è quello di Uber, la società di San Francisco che con una app sullo smartphone mette in contatto chi cerca un taxi privato e l' autista che lo guida: è arrivata a valere «sulla carta» - sulla base degli investimenti privati finora raccolti - oltre 60 miliardi di dollari, più di General Motors, il produttore di auto numero uno in America.
Ma il fondatore e ceo (amministratore delegato) di Uber, Travis Kalanick, ha detto che non ci pensa neppure a quotarsi, per ora. A tenere le startup lontane da Wall Street concorrono molti fattori. Uno è l' andamento negativo dei mercati, che dall' inizio dell' anno ha punito soprattutto il settore tecnologico: l' indice Nasdaq - su cui pesano di più i titoli high-tech - è crollato del 12% da inizio anno, il doppio degli indici generali azionari Dow Jones e S&P500.
In un clima di fuggi fuggi dagli investimenti più rischiosi, ci vuole coraggio a fare una Ipo. Soprattutto dopo i risultati deludenti degli ultimi tre anni: le azioni della maggior parte delle matricole dal 2013 a oggi valgono meno del prezzo di collocamento. Capita, fra le altre startup, alle due creature di uno dei cervelli più brillanti della Silicon Valley, Jack Dorsey: Twitter, il social network di micro-messaggi (i tweet), oggi vale il 42% meno del luglio 2013 quando fece l' Ipo, e anche la applicazione per pagamenti su smartphone Square è scesa sotto il prezzo dell' offerta, avvenuta lo scorso novembre.
I vincitori
Chi ha guadagnato di sicuro in tutte le Ipo sono le banche d' affari, che incassano laute commissioni per queste operazioni, disegnate in modo da soddisfare innanzitutto i loro clienti privilegiati: d' accordo con gli azionisti delle matricole, offrono solo una piccola quota del capitale, di solito attorno al 15%, per aumentare la pressione della domanda sperando in un aumento del prezzo di almeno il 20-30% nel primo giorno di scambi, e cercano poi di tener alta l' attenzione del mercato e la quotazione per qualche settimana. Così i grandi clienti che avevano ottenuto le azioni dell' Ipo, come i fondi comuni delle società di gestione o comunque i grandi clienti istituzionali, possono rivenderle subito con profitto.
Alternative
Ma le investment bank hanno trovato il modo di guadagnare anche a prescindere dalle Ipo. Morgan Stanley e Bank of America-Merrill Lynch, per esempio, hanno lanciato fondi che investono nelle società non quotate come Uber e che sono riservati ai clienti istituzionali o individuali con patrimoni milionari. Il problema è che le informazioni sui conti delle società non quotate sono sempre molto scarse e poco trasparenti.
Si sa che Uber e molte altre startup hanno ancora i conti in rosso. Forse anche per questo preferiscono stare alla larga dalla pressione degli analisti di Wall Street.
Per continuare a crescere però hanno bisogno di liquidità e se non fanno una Ipo la devono trovare in altri modi. «Alle valutazioni esorbitanti raggiunte, non la trovano dai venture capitalist professionali, ma piuttosto dagli investitori che arrivano per ultimi, come i fondi comuni e i fondi pensione - spiega Alessandro Piol, co-fondatore di AlphaPrime venture -. Comunque prima o poi una startup con investitori esterni deve quotarsi per permettere loro di realizzare profitti. E allora se la valutazione della società non è giustificata, sono dolori per tutti».
Per questo Fred Wilson, uno dei più famosi e autorevoli venture capitalist con la sua Union square ventures, è recentemente sbottato: «Porta in Borsa quella dannata azienda!», ha detto rivolgendosi in pubblico a Travis Kalanick a proposito della riottosa (alla Borsa) Uber. Se continua invece l' attuale stallo delle Ipo, alla fine il cerino rischia di rimanere nelle mani dei risparmiatori clienti dei fondi comuni e dei fondi pensione, convinti dalle banche d' affari a scommettere sulle azioni non quotate degli «unicorni» come Uber e Airbnb. E allora gli americani avranno un motivo in più per odiare Wall Street.
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