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Massimo Mucchetti per il Corriere della Sera
La Fiat ritira il piano Fabbrica Italia e il giorno dopo, sul far della sera, Diego Della Valle attacca Sergio Marchionne e John Elkann con 295 parole di inusitata violenza verbale. L'amministratore delegato della Fiat, giudicato inadeguato, e il suo presidente vengono apostrofati come «furbetti cosmopoliti» perché, nel perseguire i propri interessi, non si curano minimamente del Paese che ha loro dato tanto, anzi troppo.
L'immagine dei furbetti cosmopoliti allude all'orientamento sempre più spiccato del gruppo torinese verso l'America e al progressivo disimpegno dall'Italia. à una tecnica di comunicazione che riecheggia la definizione di «arzilli vecchietti» riservata dal signor Tod's a Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli all'inizio della battaglia delle Generali. Pragmaticamente, Della Valle ritirò lo sberleffo verso il presidente di Intesa Sanpaolo, grande finanziatrice della Ntv-Nuovo trasporto viaggiatori di cui lo stesso Della Valle è socio fondatore.
Ma lo conservò e sviluppò contro il banchiere romano, facendo da ariete a Mediobanca e alla maggioranza degli altri soci eccellenti della compagnia che il 6 aprile 2011 defenestrarono Geronzi dalle Generali. In questo caso Della Valle non punta a ribaltare alcunché al Lingotto, dove non è né socio né consigliere. Perché dunque questa uscita?
Certo, Della Valle coglie un problema reale.
Che, in altro modo, il Corriere sottolinea da tempo: le libere scelte della multinazionale Fiat possono difendere gli interessi degli azionisti ma avviano anche la separazione unilaterale dell'impresa - la maggiore e più complessa impresa industriale italiana - dagli interessi del Paese. Per la prima volta da un secolo.
L'industriale marchigiano usa argomenti che faranno piacere alla Fiom e a quella vasta parte dell'opinione pubblica, non solo di sinistra, che da tempo nutre riserve sulla Fiat e sugli Agnelli. Lo fa con l'autorevolezza dell'imprenditore di successo, padrone in casa sua e dunque anche libero di sbagliare. Ma nella nota di Della Valle è presente anche una misura di furbizia. Essa non indebolisce la sostanza, peraltro espressa in forma così sgraziata. E tuttavia questa furbizia va colta.
Colpisce, anzitutto, la scelta dei tempi. Si possono discutere le scelte di Marchionne e degli Agnelli. Anche radicalmente. E questo giornale l'ha fatto, anche prima di Della Valle. Ma non va mai dimenticato che nel 2004, quando Marchionne arrivò a Torino, la Fiat stava fallendo. Al salvataggio hanno concorso anche altri: le banche, i soci, i lavoratori. Ma Marchionne ci ha messo del suo.
In ogni caso, non si può criticare Marchionne senza estendere l'analisi a Giovanni Agnelli e alla sua decisione, che risale alla fine degli anni 80, di continuare nella diversificazione degli investimenti anziché concentrarli nell'auto come fece, all'opposto, la Volkswagen. Finché Cesare Romiti, che quella linea appoggiò, conservò il timone nelle sue mani, la baracca rimase comunque in piedi. Poi, quando gli Agnelli vollero fare da soli, si aprì il precipizio. Della Valle era già Della Valle. Avrebbe avuto molte occasioni per prendere posizione.
Ma l'Avvocato, che amava le Tod's e ne era, di fatto, il principale e gratuito testimonial, rappresentava un'icona intangibile. E tale è stato per tanti. Perché allora concentrare sul nipote tutte le «colpe», comprese quelle innominate del nonno?
Senza dubbio, l'annuncio della Fiat su Fabbrica Italia formalizza un fallimento. Ma perché ergersi a leader di un'Italia industriale anti Fiat e, al tempo stesso, non dire una parola sul ruolo che il governo potrebbe giocare e non gioca per dare un altro respiro, non assistenziale ma di mercato, al caso Fiat?
Probabilmente pure i rapporti in seno al campo industriale sono logorati: la Confindustria in preda a tentazioni scissionistiche; la Fiat che si chiama fuori e palesemente snobba la confederazione. Ma non è possibile dimenticare che Della Valle associa a queste uscite da rottamatore - come se fosse un Renzi della finanza - la spregiudicata tensione verso propri obiettivi. E i giudizi sulle persone sembrano talvolta essere da questa tensione condizionati.
à difficile dimenticare la battaglia spalla a spalla con il banchiere Alberto Nagel sulle Generali e poi il feroce attacco contro lo stesso Nagel e John Elkann, bollati inadatti al ruolo, dopo che Nagel gli aveva negato il seggio della Fondiaria in Mediobanca e sempre Nagel ed Elkann non l'avevano sostenuto nella sua ambizione di crescita nell'azionariato di Rcs Mediagroup: ambizione legittima (come legittime sono posizioni opposte), che l'avrebbe comunque portato nelle ultime settimane ad arrotondare la propria quota.
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