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Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano”
matteo renzi e Marissa Mayer ceo yahoo
C’è da augurarsi che nel suo giro in Silicon Valley il premier Matteo Renzi abbia trovato il modo di chiedere ai pionieri del web qualche ragguaglio sulle loro raffinate tecniche di elusione fiscali. Quelle che, per esempio, hanno consentito a Yahoo!, colosso sia pur declinante dei motori di ricerca, di pagare nel 2013 solo il 24 per cento di tasse sugli utili, quando l’aliquota americana sarebbe del 35 per cento.
La più giovane Twitter è per ora al di sopra di ogni sospetto. Non avendo ancora imbroccato un modello di business esplosivo, ha chiuso l’ultimo bilancio con 664 milioni di dollari (un dollaro vale circa 1,3 euro) e perdite per 645. In pratica per ogni dollaro incassato, Twitter ne spende due, anche se le va riconosciuto che se facesse come una normale azienda italiana avrebbe risparmiato i 593 milioni di dollari investiti in ricerca e avrebbe avuto in conti quasi in pareggio.
Ma i giganti del web, come Yahoo! e soprattutto Google, hanno le tecniche di risparmio fiscale tra i decisivi pilastri della loro strategia industriale. Ciò che sta diventando uno dei problemi centrali delle politiche fiscali europee. Nelle more del cambio della guardia tra Enrico Letta e Matteo Renzi il tema della cosiddetta web tax è stato un tema importante di discussione attorno alle politiche di bilancio per il 2014. Il governo Letta l’aveva introdotta, proprio con lo scopo di recuperare un po’ di gettito dalle società che vivono e prosperano sulla rete e sono in grado, del tutto legalmente, di non pagare un euro di tasse nei Paesi dove fanno affari.
matteo renzi con dick costolo di twitter e marissa mayer
E del resto il problema è chiaro: se uno va a fare una ricerca sul motore di ricerca di Google, e viene bombardato dalla pubblicità di aziende italiane che pagano per questo la società americana, come stabilire in quale Paese viene realizzato il profitto? Così la discussione è diventata, come sempre in Italia, vagamente teologica. Renzi, appena eletto segretario del Pd l’8 dicembre 2013, ha bocciato sonoramente la web tax, ritenendo che azzoppasse ingiustamente le aziende innovative e scoraggiasse gli investimenti stranieri in Italia.
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