DAGOREPORT - COSA POTREBBE SUCCEDERE DOPO LA MOSSA DI ANDREA ORCEL CHE SI È MESSO IN TASCA IL 4,1%…
1. E ADESSO L’AMERICA HA PAURA DI PERDERE L’EGEMONIA SUL WEB
Federico Rampini per “la Repubblica”
La sfida per la leadership globale della Silicon Valley viene presa sul serio. L’euforìa di Wall Street per il collocamento- boom di Alibaba lascia il posto a un interrogativo geostrategico: quanto durerà l’egemonia americana sulla Rete? Cinesi, indiani, giapponesi, sudcoreani, insieme già rappresentano “l’altra metà del cyber-universo”. Di colpo l’America viene colta da un dubbio: siamo davanti a un bis della “sindrome Toyota”? Erano gli anni Settanta, e con la prima crisi energetica le auto made in Japan si affacciarono sul mercato Usa. La loro minaccia fu sottovalutata, perfino schernita.
Piccole, bruttine, scomode (ma consumavano metà benzina), divennero lo zimbello dei capi di Detroit. Mal gliene incolse. Ci sono voluti tre decenni, è vero, ma all’inizio del terzo millennio Toyota toglieva a General Motors il primato mondiale nella produzione di auto. In quanto al primato su qualità, affidabilità, innovazione, modernità dei sistemi di produzione (il toyotismo invece del fordismo), era già finito a Oriente da anni.
Oggi i numeri della nuova sfida li ricorda il Wall Street Journal, lanciando l’allarme sugli «equilibri di potere di Internet che scivolano verso l’Asia ». Dopo il collocamento in Borsa di Alibaba, ben quattro su dieci delle maggiori aziende digitali sono in Asia (se si guarda al valore della capitalizzazione azionaria). Oltre al colosso cinese del commercio online ci sono altri tre gruppi cinesi: Tencent, Baidu, JD.com. Più indietro, ma in rapida ascesa, ci sono gruppi come Naver (Corea del Sud) e Rakuten (Giappone).
Questa classifica si riferisce unicamente a società che non hanno attività manifatturiere ma solo di servizi, altrimenti bisognerebbe includere la sfida di colossi industriali tra Apple e la coreana Samsung negli smartphone. Se si sommano fra loro le capitalizzazioni dei quattro big della Rete in Estremo Oriente, si arriva ben oltre la metà del valore dei leader Usa che sono Google, Facebook, Amazon ed eBay. Non è poco se si considera che Internet è una “invenzione americana” almeno nella sua dimensione di business. D’altra parte anche il baricentro della popolazione digitale si sta evolvendo a una velocità impressionante visto che il 45% di tutti gli utenti online sono in Asia.
Nella sola Cina il numero di utenti di smartphone ha superato la soglia del mezzo miliardo. In quanto ai frequentatori di social media, coloro che si trovano nell’area dell’Asia-Pacifico sfiorano il miliardo cioè quasi il quintuplo rispetto al Nordamerica. E qui s’incontra una delle caratteristiche di questa sfida: quando si dice “utenti di social media”, noi occidentali automaticamente pensiamo a Facebook e Twitter; che invece sono assenti oppure marginali nei paesi in crescita.
Qui entrano in gioco due tipi di barriere: culturali o politiche. La Corea del Sud, e in parte anche il Giappone, sono meno permeabili alla penetrazione dei social media occidentali per ragioni linguistiche, tendono a privilegiare quei netowrk nati in casa propria e quindi “pensati” localmente. In Cina interviene invece la censura vera e propria. La guerra tra il regime di Pechino e Google ha fatto scalpore. Ma si è chiusa con la sostanziale esclusione o auto-esclusione del motore di ricerca più importante del mondo, dal mercato più vasto. Facebook e Twitter sono all’indice in Cina e hanno subito censure anche in Turchia e Iran.
Lo spostamento dei rapporti di forze in favore dell’Asia, coincide dunque con una tendenza parallela, alla “balcanizzazione” o alla “ri-nazionalizzazione” della Rete. Le forze di cui sopra – barriere linguistico-culturali o censure dei regimi autoritari – fanno sì che la Rete sia meno unita e globale di quanto fosse all’origine. In questo senso la sfida tra i giganti della Silicon Valley e quelli cinesi avviene quasi su due campi di gioco separati. Ognuno esercita la propria egemonia su mercati che non sono totalmente comunicanti.
Ci sono casi in cui la gara è davvero aperta, e i confronti tra le due Reti si possono fare. In termini di innovazione, la Silicon Valley californiana conserva parecchie lunghezze di vantaggio. I segnali sono evidenti. Continua ad esserci una fuga di cervelli dalla Cina verso l’America, e perfino la figlia del presidente Xi Jinping studia a Harvard, mentre non esiste un fenomeno paragonabile nella direzione inversa. Il fascino “magico” dei prodotti concepiti e progettati nella Silicon Valley continua a catturare anche i cinesi: il boom di acquisti dell’ultimo modello di iPhone della Apple in Cina è stato superiore a quello registrato qui in America.
Si avvera una regola fondamentale: anche l’innovazione tecnologica fiorisce meglio dove c’è libertà di espressione, società multietnica, rispetto delle diversità. L’Asia per adesso si accontenta di innovazioni “pratiche”, sul modello della Jugaad Innovation indiana. Per esempio giapponesi e sudcoreani, ma ora anche i cinesi, sono all’avanguardia nelle applicazioni degli smartphone come sistemi di pagamento. Resta da vedere se il miracolo Toyota si ripeterà anche nella Rete.
2. CINA.COM - L’IMPERO CINESE DELLA TECNOLOGIA
Giampaolo Visetti per “la Repubblica”
Venerdì 19 settembre, alle 9.30, il mondo ha sentito di essere improvvisamente cambiato. Alibaba, gigante dell’e-commerce cinese, ha conquistato Wall Street con l’Ipo più ricca della storia. Investitori globali si sono contesi titoli per quasi 25 miliardi di dollari, riconoscendo alla creatura dell’ex professore d’inglese Jack Ma, una capitalizzazione da 240 miliardi. Un debutto simile non si è limitato a stabilire un primato finanziario. Indica la nuova direzione del business, la definitiva affermazione del web e il sempre più indissolubile intreccio degli affari che legano la Cina agli Usa e all’Europa.
L’Occidente, costretto a scommettere su hi-tech e classe media cinesi, ha ora più chiara la dimensione reale dell’Asia: da «fabbrica del mondo » è già mutata in «distributore del pianeta». La chiave è la Rete, l’universo politicamente incontrollabile che Pechino considera il peggior nemico, reprimendolo con la censura. Prima però, anche al di qua della Grande Muraglia, gli affari.
Così, tra le prime dieci società mondiali del web, già quattro sono cinesi ed è proprio la «China.net» guidata dal miliardario fan di Forrest Gump ad insidiare il Paese simbolo di innovazione e imprenditorialità privata. Alibaba, la messaggeria istantanea di Tencent, il motore di ricerca Baidu e l’e-commerce di JD.com, hanno una capitalizzazione pari a 460 miliardi di dollari: secondi, per ora, solo agli 815 sommati da Google, Facebook, Amazon ed eBay.
Alibaba fattura da sola più di Amazon ed eBay messe assieme, chiuderà un bilancio 2014 da 420 miliardi ed entro il 2020 controllerà un mercato online superiore alla somma di quelli di Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia. Sconvolta anche la classifica dei 1271 miliardari cinesi: tra i primi dieci, cinque gravitano ora attorno al web, retrocedendo i signori di cemento ed export low cost.
L’irruzione del colosso cinese dell’e-commerce al New York Stock Exchange segna così l’avvio del testa a testa Cina- Stati Uniti per il controllo della comunicazione e dello shopping online, cuore del business di questo secolo. Risorse energetiche e distretti industriali diventano meno strategici: fonti rinnovabili e moltiplicazione dei mercati dirottano su pubblicità e distribuzione la guerra per il monopolio di idee e consumi.
Grazie alla ribattezzata «generazione Alibaba», Pechino ha spinto in Rete 630 milioni di cinesi, il doppio della popolazione Usa. La galassia virtuale di Jack Ma, in cui orbitano anche il centro commerciale Taobao, la boutique Tmall e la banca Alipay, conta 7 milioni di fornitori solo in Cina e i clienti di 240 Paesi possono scegliere tra 800 milioni di prodotti.
Il «coccodrillo dello Yangze» ha spiegato così l’esplosione di “China.net”: «Il futuro non è delle fattorie dove si alleva un solo animale, ma degli zoo, che offrono tutte le specie». Tagliare le vetrine tradizionali, portando qualsiasi merce dal produttore al consumatore tramite un clic, significa «piantare affari in ogni angolo del mondo». Lo stesso vale per le idee, l’informazione, la conoscenza. «La mia missione – ha detto il nuovo imperatore comunista delle democrazie capitaliste – è stabilire il contatto tra origine e destinazione, di un prodotto o di un pensiero».
La febbre delle Borse nasce dal riconoscimento di questa intuizione: la Cina del web congeda secoli di «vie della seta » per aprire l’era dei policentri diffusi sulle fibre ottiche. Copyright Usa ma esecuzione made in China, con il duello Pechino-Washington appaltato a Xiaomi-Apple e ad Alibaba-Amazon, al decimo e nono posto tra i siti più visitati del pianeta. In Cina la «rivoluzione di Ma» fa dimenticare quella di Mao.
Le vie tra i grattacieli vengono sgomberate per fare spazio ai prodotti online, consegnati da eserciti di corrieri. Campus universitari e piazze dei villaggi assumono il profilo di depositi sconfinati: i fattorini di Alibaba consegnano il 76% dei pacchi spediti nel Paese, si arrampicano su montagne di scatole e convocano i clienti gridando le ultime tre cifre dello smart-phone. Nessun negozio, ma è boom di consumi. Si moltiplicano anche i «villaggi Taobao », paesi isolati che grazie al web si reinventano epicentri produttivi del 21° secolo. Uno è Peixie, mille chilometri da Shanghai.
Restavano vecchi e bambini, giovani e famiglie si concentravano nelle metropoli. Grazie alla «rivoluzione. com» risorgono laboratori di tappeti in bambù e due sedicenni inondano l’Asia di cappelli-karaoke. «Chi controlla la Rete – dice il vice presidente di Alibaba, Joe Tsai, uno dei 6 mila miliardari partoriti da “Baba” in pochi minuti – guida la ricerca e domina il mondo: ma è l’e-commerce la cassaforte del sistema».
Nemmeno i mercati potranno così ignorare il problema che Stati Uniti ed Europa evitano, ufficialmente, di riconoscere. L’ascesa dei colossi cinesi del web rianima le Borse, ma fa suonare l’allarme in governi e imprese. I primi assistono all’avanzata dell’e- autoritarismo di Pechino tra le macerie delle democrazie, superate dalla velocità dei social network. Le seconde temono la moltiplicazione elettronica dei falsi, con i marchi in balìa di una Rete fuori controllo.
Jack Ma ha trascorso l’estate in viaggio per convincere Usa e Ue che il capitalismo rosso «sempre connesso» non è l’arma segreta della Cina per conquistare più rapidamente l’Occidente. Ha fallito solo nella ribelle Hong Kong, che ha rifiutato la quotazione del campione «connazionale» per «problemi di trasparenza». Tradotto: non si sa bene chi controlli Alibaba, tra la giapponese Softbank, l’americana Yahoo e i «compagni fondatori » cinesi, fiscalmente rifugiati sulle isole Cayman.
Il passato però è passato. Per la prima volta, dopo l’eclissi del Celeste Impero, il mondo torna a puntare sulla Cina e una sua impresa privata, grazie alla tutela del partito comunista, domina anche nel salotto del capitalismo. L’ignota Alibaba è nell’empireo dei titoli, l’ex anonimo Jack Ma guida già la classifica dei nuovi e-miliardari del Dragone, il software cinese stacca l’hardware statunitense. Pechino comunica a Washington che il passaggio delle consegne, anche in business e innovazione, sta per compiersi. «Ma io – ha sorriso l’altra sera il pioniere di Hangzhou – penso solo ai clienti, mai a guerre e avversari. Se non hai il nemico del cuore, allora il nemico non esiste».
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