DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Ugo Bertone per “Libero Quotidiano”
La diga eretta da Pechino a sostegno delle Borse è crollata ieri, quasi all’improvviso. La Borsa di Shanghai è arretrata dell’8,5 per cento abbondante, rimangiandosi più di metà dei guadagni degli ultimi venti giorni, resi possibili da un’impressionante mole di aiuti: più di 3 mila miliardi di dollari, circa un decimo del Prodotto interno lordo cinese. Ma tanti quattrini non sono stato sufficienti ad evitare al mercato del Drago la peggior seduta dal 2007.
La frana della Borsa, tamponata all’inizio di luglio, è così ripresa più violenta che mai. Ma con una differenza. I violenti ribassi di inizio estate potevano essere interpretati come una reazione fisiologica agli eccessi della Bolla, scatenata dagli acquisti dei nuovi appassionati al grande gioco della finanza. Oggi, al contrario, sono la punta dell’iceberg delle difficoltà della seconda economia del pianeta.
L’INNESCO DELLA MICCIA
Ad innescare la miccia del grande ribasso è stata, infatti, una notizia all’apparenza modesta: il calo dello 0,3 per cento dei profitti aziendali. Un dato che è stato sufficiente a scatenare una pioggia di vendite che, a differenza di giugno, non ha risparmiato nemmeno i colossi più solidi della Corporate China, compresa Baidu, il motore di ricerca quotato a Wall Street. Non meno inquietante, stavolta il mal di Cina ha immediatamente contagiato gli altri listini, sia in Occidente che nelle economie in via di sviluppo, già sotto tiro in vista della svolta della politica monetaria della Fed che mercoledì potrebbe annunciare per settembre il primo, seppur timido, aumento del costo del denaro.
putin e i brics xi jinping dilma rousseff narendra modi jacob zuma
La mappa delle Borse Emergenti sembra un bollettino di guerra: l’indice Morgan Stanley, già in calo del 16% da inizio mese, perde un altro 2%, circa ai minimi dal 2012. Vanno giù tutti, dalla Russia (-2,6%) al Brasile, in ribasso dell’1%, alla Turchia, già sotto pressione per l’offensiva militare sul fronte curdo. Due le cause della corsa al ribasso. Innanzitutto, la debolezza delle materie prime che, a partire dal rame, stanno pagando i minori acquisti in arrivo dai clienti cinesi. In questi mesi i prezzi, seppur deboli, sono stati sostenuti dalla speculazione finanziaria resa possibile dal costo modesto del denaro in dollari.
LA RESA DEI CONTI
Oggi è arrivata la resa dei conti. Gli acquisti per sostenere prezzi non giustificati dalla congiuntura economica, probabilmente ben peggiore in Cina di quanto non dicano le statistiche ufficiali, ormai non bastano più. La crescente fuga di capitali (dovuta probabilmente ai timori della classe medio-alta di cadere vittima della campagna di moralizzazione in corso) sta provocando, per la prima volta, una riduzione delle riserve valutarie.
Con meno soldi in cassa, la banca centrale cinese deve per forza limitare anche il suo impegno sull’oro. Lo stesso fenomeno vale per il rame, l’alluminio e, soprattutto, il petrolio. Anche perché la Russia, in condizioni difficili, non è in grado di sostenere la sua parte. Wall Street e le borse tendono a vivere la discesa della Cina, del petrolio e delle materie prime molto male. Invece di cogliere la sovrabbondanza dell’offerta vi leggono infatti una debolezza della domanda e pensano quindi a un rallentamento o addirittura a una recessione in arrivo.
Leonardo Ferragamo con il figlio
Ma questo, probabilmente, non farà desistere la Fed dall’intervenire a settembre sui tassi: la banca centrale è troppo preoccupata dall’aumento dell’inflazione salariale. In Europa la situazione crea spazio pe nuovi stimoli monetari, se necessario. Ma l’impatto della crisi di Cina, Brasile, Turchia (sotto la spada di Damocle del debito in dollari) getta più di un’ombra sull’andamento dell’export: è troppo presto per sperare in acquisti dall’Iran. I primi segnali negativi si vedono: ieri Salvatore Ferragamo, che nella grande Cina ha il suo primo cliente, ha perduto il 4,2%.
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