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Cristina Grande Stevens accarezza Gianluigi Gabetti
Il premier "non convince" Grande Stevens che prospetta il rischio di un regime semi-dittatoriale "di pochi, facili da manovrare". E sulla corruzione ritiene che si debba cambiare la mentalità degli italiani. Non si poteva iniziare da una famiglia da lui frequentata?
“Con le proposte che Renzi vuole portare avanti per la Camera e il Senato avremo i nominati, i capilista che non hanno bisogno di preferenze e rischiamo di avviarci versi una semidittatura di pochi, facili da manovrare”.
Non è l’ennesima staffilata della sinistra dem, l’ultimo affondo di un Miguel Gotor o, per restare in Piemonte, di un Federico Fornaro, ma il pensiero di un personaggio oltre e sopra la politica politicante, e che personaggio. Uno che dice di non aver cambiato idea sull’arrembante leader fiorentino, avendo parteggiato – pur da uomo senza partito ma da “grande elettore” del primigenio Pd – per Bersani. Lui è Franzo Grande Stevens. L’avvocato dell’Avvocato, si diceva osservando la consequenzialità di maiuscola a minuscola, per ritrarlo in quella che è stata la sua funzione più nota e foriera di fama, sia pur non l’unica tra molte e tutte di grande rilievo.
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Con un numero di interviste rilasciate inversamente proporzionale a quello di incarichi professionali svolti per il gotha dell’imprenditoria e della finanza, l’avvocato della Fiat, come sempre è stato definito per farne un tutt’uno con la famiglia Agnelli, assai di più di un consulente di rango, ha rotto un silenzio osservato con avvedutezza aprendosi in un colloquio con il direttore dell’Eco del Chisone, area geografica pinerolese, cattolica quella di riferimento.
Sulla soglia dei novant’anni, è del ’28, Grande Stevens ribadisce che Renzi, “non mi convince”, pur riconoscendogli doti di comunicatore “importanti per gli italiani che amano gli slogan. È stato così con Berlusconi come fu a suo tempo con Mussolini”. Un confronto già di per sé viperino. Ma è su un altro tema che l’intervista di Pier Giovanni Trossero, allontanandosi almeno un poco dalla figura del segretario-premier, vira e involontariamente s’avvita proprio su di lui, l’avvocato dell’Avvocato.
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La metà della coppia, formata per mezzo secolo con Gian Luigi Gabetti, dei Grandi Vecchi dell’era agnellesca, ma anche l’avvocato del tesoretto della Famiglia, dello Ior e del mai del tutto chiarito mistero, tra i mille, della fine di un altro tesoro, quello degli ustascia, al cui proposito Grande Stevens disse, forse tirando un sospiro di sollievo, che “ogni dieci anni si bruciano tutte le carte”.
E poi ancora della vicenda che lo aveva portato sul banco degli imputati ancora insieme a Gabetti con l’accusa di aggiotaggio informativo per la storia di Ifil-Exor, l’operazione di equity swap che nel 2005 permise alla finanziaria degli Agnelli di mantenere il controllo su Fiat invece di cedere il passo alle banche creditrici per 3 miliardi di euro. Viene condannato a un anno e quattro mesi, 600mila euro di multa, ma la prima sezione penale della Cassazione ha poi annullato senza rinvio la sentenza per intervenuta prescrizione del reato.
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Vicende da cui Grande Stevens è uscito indenne, ma che fanno assumere alle parole del grande leguleio napoletano ma torinese d’adozione, un che di, come dire?, curioso, massì. Alla domanda sul perché la corruzione continui a imperversare nel Paese, egli risponde che “purtroppo le brutte abitudini non sono cambiate”, forse memore di quanto accadde anche e proprio in casa Fiat ai tempi di Tangentopoli. “E questa – aggiunge – è una delle ragioni per cui perdiamo imprese. Quelle sane subiscono, mentre le pseudoimprese usano strumenti corruttivi soprattutto verso la pubblica amministrazione”.
Parole che inducono la memoria a fare un salto indietro di vent’anni , a quel 1993 quando in piena bufera di Mani Pulite l’Avvocato convocò una riunione ai massimi vertici a cui parteciparono, tra gli altri, Umberto Agnelli, Cesare Romiti e l’avvocato Ezio Gandini: si stila l’inventario delle mazzette Fiat, si prepara un memoriale per il pool e, lui, l’avvocato Grande Stevens redige un “codice di comportamento per i rapporti con la pubblica amministrazione” a cui i manager del Gruppo si sarebbero dovuti attenere in futuro.
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In quest'occasione Romiti invitò i più importanti manager del gruppo a contattare, qualora avessero qualcosa da riferire alla magistratura, l’avvocato Gandini, capo dell’ufficio legale della Fiat, per concordare le modalità della strategia di collaborazione con gli organi inquirenti. L’invito di Romiti suscitò non pochi interrogativi in merito alla necessità di un “codice etico”, quando il codice civile e quello penale costituivano da tempo codici di comportamento validi per tutti i cittadini italiani.
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Il giorno successivo Gianni Agnelli, davanti ad una folta platea di imprenditori alla Fenice di Venezia, ammetterà che “anche alla Fiat si sono verificati alcuni episodi di commistione con il sistema politico non corretti”. E un processo, attualmente in corso a Milano, tenta di far luce sui rapporti, non propriamente lineari, intercorsi tra la procura torinese dell’epoca e lo stesso vertice della Fiat
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Più di vent’ anni dopo, l’autore di quel “codice di comportamento per i rapporti con la pubblica amministrazione” ad uso dei manager Fiat, custode di segreti e trame (come la provvista estera della famiglia Agnelli), spiega che “bisogna cambiare la mentalità degli italiani. Ed è la cosa più difficile – aggiunge – perché spesso è problematico ottenere un lavoro nel settore pubblico se non fai dei piaceri alla persona da cui dipende la decisione”. Monsieur de Lapalisse non avrebbe saputo dirlo meglio. Magari, solo perché gli sarebbe mancato quel vissuto dell’avvocato dell’Avvocato.
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