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Bianca Carretto per il “Corriere della Sera”
Gli Stati Uniti per Volkswagen non sono un’oasi felice, da mesi la casa tedesca soffre sul mercato americano dove i modelli del marchio sono ritenuti più costosi della concorrenza, per cui le vendite continuano a calare nel mercato che, attualmente, è il più dinamico del mondo. L’America rappresenta solo il 6% del fatturato del gruppo, dall’inizio del 2015 Volkswagen ha immatricolato negli Usa circa 240 mila vetture contro 1,15 milioni del suo principale concorrente, la giapponese Toyota. L’accusa di aver frodato il rilevamento delle emissioni che viene rivolta al costruttore di Wolfsburg è contemplata nell’offensiva dell’amministrazione Obama che ha fatto della lotta contro il riscaldamento climatico una delle basi della sua politica energetica e ambientale.
Questo colpo di scena avviene tre settimane prima della ristrutturazione che l’amministratore delegato Martin Winterkorn ha pianificato per dare un nuovo assetto al gruppo che deve affrontare le flessioni della Cina, della Russia e del Sud America, e che contempla un apparato più snello, suddiviso in quattro entità distinte, capaci di adattarsi con maggior flessibilità ai mutamenti dei mercati.
Non è neppure casuale che questa turbolenza arrivi cinque mesi dopo il duello che Ferdinand Piëch, presidente del consiglio di sorveglianza del gruppo, aveva ingaggiato proprio contro Winterkorn, coinvolgendo anche i membri della famiglia Porsche e accusandolo di non essere più in grado di tenere sotto controllo il gruppo. Piech, sconfitto, ha lasciato tutte le sue cariche ma è ancora il maggior azionista della società.
Che cosa può aver attivato l’inchiesta che l’Epa ha istruito nei confronti di Volkswagen? Potrebbe essere la conseguenza di quella lotta famigliare che ancora non si è placata? La riconquista di un potere gestito per lungo tempo a cui è difficile rinunciare? L’indagine potrebbe avere dei risvolti anche penali che comporterebbero dei danni di immagine irreversibili.
Winterkorn ha chiesto scusa all’opinione pubblica americana, ma non è stata un’ammissione di colpa, si è detto pronto a collaborare, attende l’esatta formulazione delle accuse e le risposte dell’indagine interna che ha ordinato. Scossoni di questa portata sono ricorrenti nella storia dell’auto, basti ricordare i quasi dieci milioni di richiami effettuati da Toyota per problemi tecnici, quelli di General Motors, costati 35 milioni di multa per non aver denunciato, per tempo, il difetto di una molla, oltre alla penalità, inflitta solo qualche giorno fa, di circa un miliardo di dollari per chiudere le indagini sugli incidenti.
Come non richiamare alla memoria la leggendaria prova dell’Alce che la Mercedes Classe A non era riuscita a superare, ai circa 53 milioni di auto coinvolte dal 2008, per aver montato airbag Takata difettosi, alla sanzione inflitta a Hyundai/Kia di 100 milioni di dollari per aver diffuso dati errati sul consumo di carburante. Anche Fca, a fine luglio, ha subito un’ammenda di 105 milioni di dollari per aver gestito in modo errato il processo di richiami legato alla violazione del sistema Uconnect della Jeep Cherokee. Crisi affrontate e superate.
Ulteriori obiettivi di lotta contro le emissioni sono stati fissati negli Usa durante l’estate e riguardano i fumi delle centrali a carbone e i gas di scarico automobilistici, che comporteranno un ulteriore aumento dei costi di produzione per le case. Questo è il tema che Sergio Marchionne sta affrontando, invoca alleanze e concentrazioni per condividere, e quindi minimizzare, il consumo di capitale necessario per sviluppare il settore della ricerca e sviluppo, evitando che l’industria dell’auto si trasformi in un insostenibile centro di costo.
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