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Carlo Di Foggia per "il Fatto Quotidiano"
Un quarto di secolo per un terzo del mercato. "Forse l'abbiamo un po' sottovalutata...". L'eufemismo è di Mauro Mamoli presidente di Federmobili, i piccoli negozi d'arredo schiacciati dalla multinazionale giallo-blu. In principio Ikea fu un "negozio" a Cinisello Balsamo, alle porte di Milano.
Nel maggio 1989 il gigante svedese ha già conquistato i grandi Paesi d'Europa, da più di dieci anni l'ufficio acquisti di Trezzano sul Naviglio studia il mercato e i possibili fornitori; esordisce con quattromila metri quadri e nessuno lo prende sul serio. "Nei corsi di arredamento portarono questo nuovo catalogo - ricorda Mamoli - prezzi bassissimi, strane linee, l'acquisto smontato... Non c'entrava nulla con la qualità e lo stile italiano". Perché preoccuparsi?
A sentire i commercianti, ad ammazzare la distribuzione italiana non sono stati i clamorosi fallimenti, con strascichi giudiziari, di pionieri come Aiazzone e Emmelunga, ma "l'estrema polverizzazione dell'offerta e la confusione sugli sconti". Ikea vale da sola quasi il 10 per cento del mercato, ma ha spianato la strada alla grande distribuzione di mobili.
In meno di quindici anni, i negozi tradizionali d'arredo hanno visto gli acquisti calare del 35 per cento. Le proteste sindacali per i bassi salari e i controlli invasivi sui dipendenti, il dedalo di holding in Olanda e fondazioni in Lussemburgo per abbattere i costi fiscali, i libri inchiesta e persino le rivelazioni sul passato filo-nazista e i "metodi da Stasi" usati dal suo leggendario fondatore Ingvar Kamprad non l'hanno scalfita. Ikea piace agli italiani.
Venticinque anni fa, anche i fornitori della piccola distribuzione non colsero la portata dell'evento. Dopo tutto si trattava dei "pionieri del mobile", artigiani con oltre trent'anni di esperienza divenuti industriali di successo in Brianza, nel Veneto e nelle Marche. Oggi guardano all'export. In pochi sono riusciti a entrare nelle grazie della potente centrale acquisti Ikea, un miliardo di euro di commesse (l'8,2 per cento di tutta la merce venduta nel mondo).
Gli svedesi hanno puntato sui distretti del nord-est, Veneto, Lombardia e Friuli, dove acquista più che in Svezia o Germania. Tra Treviso, Pordenone e Gorizia, hanno sede alcuni tra i più grandi fornitori del colosso svedese, con volumi di produzione enormi e margini di guadagno molto bassi. "Qui Ikea vale il 60 per cento del fatturato dell'intero distretto", spiega Fabio Simonella, per anni responsabile della sezione legno e arredo dell'unione industriale di Pordenone e ad di SinCo, impresa che faceva da terzista a un fornitore della multinazionale.
A oggi, le commesse danno lavoro a circa 2500 persone. Chi produce per Ikea racconta di trattative estenuanti, di una pressione continua per contenere i margini, in modo da avere poi prezzi di vendita competitivi. Si parte con i test, che durano anni; i manager Ikea visitano gli stabilimenti , controllano tutto e scelgono anche i sub-fornitori.
I contratti prevedono sempre una progressiva discesa del prezzo di fornitura. "Se un anno non sei in grado di applicare uno scontro del 3 per cento sei fuori", spiega al Fatto un fornitore storico di Ikea. Che è un cliente difficile. Tre anni fa la friulana Snaidero ha interrotto i rapporti e messo in cassa integrazione 40 dipendenti: "I margini erano troppo bassi", spiegarono i vertici dell'azienda di Majano.
Nonostante il massimo riserbo imposto dall'azienda, si sa che i fornitori sono 24, con 53 stabilimenti coinvolti. L'elemento base dei mobili Ikea è il pannello di truciolare nobilitato, realizzato da aziende come Frati, Saviola o Fantoni. Nel trevigiano , la 3B di Salgareda in 10 anni ha raddoppiato il suo fatturato (200 milioni).
La Media Profili di Mansuè - quasi 600 addetti - dopo 11 anni di forniture, oggi fattura 245 milioni di euro. I veterani, dal 1997, sono quelli di Friul Intagli - un migliaio di dipendenti - che da Ikea ricava 180 milioni su 300 totali. Due anni fa è toccato al Piemonte. Nella Regione, Ikea ha spostato la produzione di giocattoli dalla Malesia e dei rubinetti dalla Cina.
Una delocalizzazione al contrario, salutata dai media come il trionfo del made in Italy, ma che riguarda solo due aziende. Una di queste, la Paini di Pogno, in provincia di Novara, è diventata il principale fornitore di rubinetti. Oggi ha un fatturato di 70 milioni di euro e 330 dipendenti, più altri 200 nelle aziende satelliti, una delle quali in Cina.
Il prezzo dei prodotti è uguale ovunque, l'eccellenza italiana sta nella tecnologia, macchine in grado di produrre mille pezzi l'ora. "Così si comprimono i costi e si batte la concorrenza. Ma questa è industria, il made in Italy è un'altra cosa. Ma gli artigiani non sono esperti di marketing", ammette l'imprenditore Simonella.
Dopo un quarto di secolo, nessuno sottovaluta più Ikea. In Lombardia, il gruppo conta di aprire uno spazio espositivo di 130 mila metri quadri nel comune di Rescaldina, a Nord di Milano, ma i commercianti della zona non ne vogliono sapere. La Confcommercio contesta anche i dati sull'impatto, secondo il suo ufficio studi per 840 nuovi posti di lavoro creati se ne distruggerebbero 1.085.
Oggi l'apertura di un megastore giallo-blu terrorizza i negozianti, non solo quelli dell'arredo. Dal 2007 al 2012 il mercato del legno e dell'arredo ha perso quasi 14 miliardi di fatturato, 4200 imprese hanno chiuso i battenti. Il risultato è stato un salasso di 28 mila posti di lavoro. "Se il governo a giugno scorso non fosse intervenuto con due misure a sostegno della domanda nazionale, Bonus Mobili ed Eco-bonus - spiegano da Federlegnoarredo - il bilancio sarebbe ancora più drammatico".
La multinazionale di Ãlmhult, invece, avanza come un caterpillar. Negli ultimi due anni, per la prima volta il fatturato di Ikea Italia - 1,52 miliardi di euro - ha visto il segno meno: 80 milioni persi. Conseguenze? Nessuna. A marzo ha inaugurato il negozio di Pisa, e a Villesse, in provincia di Gorizia, ha fatto il salto di qualità temuto da tutti: un centro commerciale totalmente Ikea.
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