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PASSO CARRAI - “MAI FATTO AFFARI CON L’ATTUALE AD DI MONTEPASCHI MORELLI”, L’AMICO DI RENZI E SUO CONSULENTE DI FIDUCIA PER L’INTELLIGENCE MARCO CARRAI QUERELA MASSIMO GIANNINI DOPO L’ARTICOLO PUBBLICATO DA “REPUBBLICA” SUL “GROVIGLIO ARMONIOSO" DEL SALVATAGGIO MPS - LA REPLICA: “SE SI È SENTITO DIFFAMATO ME NE SCUSO”

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Marco Carrai a “la Repubblica”

 

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«Il dottor Giannini in un articolo apparso ieri dal titolo “Il groviglio armonioso del salvataggio Mps”, ricostruendo la vicenda ha scritto che sarei “già stato in affari” con l’attuale amministratore delegato di Mps Marco Morelli. La notizia è falsa e contribuisce a gettare ombre sulla mia persona». A dirlo è Marco Carrai annunciando l’intenzione di sporgere querela.

 

Massimo Giannini ha replicato: «Se il dottor Marco Carrai si è sentito diffamato me ne scuso, ma onestamete non ne comprendo la ragione.

 

Il termine “affari”, nell’accezione che uso nel mio articolo, non sottintende nulla, sul piano economico-finanziario, e meno che mai niente di “losco”, sul piano etico-giuridico. È solo la fotografia di un rapporto di antica data, personale e professionale, che ha attraversato vicende nelle quali Carrai e Morelli hanno avuto molto in comune.

 

MASSIMO GIANNINIMASSIMO GIANNINI

Una su tutte: la nomina del primo ad amministratore delegato della Firenze Parcheggi, sostenuta dalla banca di cui il secondo era vicedirettore generale.Del resto, lo stesso Morelli, sia pure insieme a molti altri esponenti dell’establishment politico-economico, è stato uno degli ospiti d’onore al matrimonio di Carrai, nel settembre 2014».

 

2. IL GROVIGLIO ARMONIOSO DEL SALVATAGGIO MPS

Massimo Giannini per “la Repubblica”

 

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A quaranta giorni dal referendum costituzionale, la questione bancaria angustia lo Stato e infiamma il mercato. Sulla vendita di Etruria e dei tre istituti “in risoluzione” dal dicembre 2015, sul consolidamento delle due Popolari Venete e soprattutto sul salvataggio del Montepaschi, il governo si gioca una parte importante della sua credibilità, e il mercato una quota rilevante della sua stabilità. Finora, la partita l’hanno giocata male tutti. La politica è entrata in campo, la finanza è rimasta in panchina, la Vigilanza addirittura in tribuna.

 

Il caso Mps è esemplare. La banca di Siena si conferma un “groviglio armonioso”, come la chiamavano dai tempi del Pci e del “socialismo municipale” degli anni ‘80. L’istituto, in crisi da vent’anni, bocciato agli stress test dell’Eba e bisognoso di un’iniezione di risorse fresche per 5 miliardi, nell’ultima settimana ha strappato in Borsa, recuperando il 40% del suo valore (dopo averne bruciato i due terzi dall’inizio dell’estate). È passato di mano più del 30% del capitale.

MARCO MORELLIMARCO MORELLI

 

Chi ha comprato? Nessuno lo sa. Perché ha comprato? Ci sono in ballo due ipotesi di aumento di capitale: uno di Jp Morgan, patrocinato da Vittorio Grilli, l’altro di alcuni fondi Usa, patrocinato da Corrado Passera. I risparmiatori non ne sanno quasi nulla. Ma tanto basta a destare gli appetiti della speculazione.

 

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La vicenda Mps interroga innanzi tutto il governo. Qui c’è un primo problema: i rapporti tra politica e finanza. E un primo valore da tutelare: l’indipendenza. Ieri Renzi ha detto che il Monte «ha uno straordinario passato e avrà uno straordinario futuro». Ha aggiunto che non si schiera nella partita tra gli ex ministri Grilli e Passera, e che a lui sta a cuore solo «che ci sia uno spazio d’azione per la banca». Parole sante. Ma il premier, in questi mesi, su Mps si è mosso con un eccesso di disinvoltura.

 

Era il 22 gennaio, quando nel comodo salotto tv di Bruno Vespa annunciava: “Ora Mps è risanato, investire è un affare”: da allora i titoli hanno perso il 60%, e senza la ricapitalizzazione la banca va in default. Era il 6 luglio, quando nel dinamico salotto di Palazzo Chigi il premier riceveva i vertici di Jp Morgan, il “ceo” Jamie Dimon, accompagnato da Grilli, e i due si impegnavano a curare l’aumento da 5 miliardi, in cambio (secondo la ricostruzione del senatore pd Massimo Mucchetti) di una ricchissima torta di commissioni e interessi da ben 1,7 miliardi.

 

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Ed era il 7 settembre, quando dal silenzioso salotto di Via XX settembre il ministro del Tesoro Padoan chiamava l’allora presidente della banca Tononi per ordinargli, in nome di Jp Morgan per conto del presidente del Consiglio, di rimuovere l’allora amministratore delegato Viola. L’ordine è stato eseguito. 

 

Al posto di Viola è arrivato Marco Morelli, già manager di Mps ai tempi dei pasticci di Mussari sui prodotti “Fresh” e “Santorini” (che poi faranno esplodere l’inchiesta giudiziaria, il misterioso suicidio/omicidio del portavoce di Rocca Salimbeni, Davide Rossi, e i soliti sospetti di trame massoniche denunciate da Alessandro Profumo) e già in affari con Marco Carrai (amico personale del premier e suo consulente di fiducia per l’intelligence). “Groviglio armonioso”, ancora una volta. “Relazioni pericolose”, anche in questo caso. Conferma di un interventismo politico, intorno alle banche, non sempre foriero di buoni risultati. Per il credito e per i risparmiatori, per i clienti e per i contribuenti.

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Infatti non ci sarebbe da gridare allo scandalo, se almeno queste invasioni di campo avessero risolto il problema. Non è così, purtroppo. E qui c’è un secondo problema: i rapporti tra finanza e mercato. E un secondo valore da tutelare: la trasparenza. Da luglio, l’aumento di capitale architettato da Jp Morgan è rimasto lettera morta. Il cda della banca, ora guidata da Morelli, ha sposato il progetto, anche se non se ne conoscono i dettagli. Nel frattempo, nell’ultima settimana, è tornato in auge il piano alternativo sponsorizzato da Passera. Nessuno sa perché, visto che era stato scartato in partenza. Nessuno conosce in dettaglio neanche questo, benché sia stato depositato lunedì scorso.

 

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Le uniche cose certe sui due piani concorrenti, finora, sono le voci. Uno vale 5 miliardi, l’altro 3,5. Uno prevederebbe la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni, l’altro il diritto d’opzione per i soci attuali. Uno prevederebbe la vendita delle sofferenze a prezzo stracciato a un veicolo apposito, l’altro le cederebbe a una società formata dai dipendenti della banca.

 

Un’opaca cortina fumogena di ipotesi, dietro alla quale nessuno sa cosa si nasconda. Nessuno dei competitori ha firmato nulla, né una carta né tanto meno un accordo vincolante. Ma su queste chiacchiere, spesso messe in giro ad arte da un capitalismo senza scrupoli, il mercato scommette fior di soldi da una settimana. Nel solito, assordante silenzio della Consob, che assiste alla fumosa partita senza battere ciglio.

 

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Speriamo che al cda della banca, convocato per lunedì prossimo, questa fitta nebbia si diradi. Sia sugli aumenti di capitale, sia sul piano industriale. Ma i dubbi sono tanti. Anche perché a decidere sui due piani A e B sarà un consiglio in sostanziale conflitto di interessi: come fa un amministratore delegato come Morelli (imposto dal governo, per volere espresso di Jp Morgan) a scegliere il piano di Passera? Se nella finanza esistesse la democrazia diretta, come in politica, insieme al referendum sulla riforma costituzionale sottoposto agli italiani bisognerebbe proporre ai soci Mps un referendum sui due aumenti di capitale. Ma la finanza, quella si, è una vera oligarchia.

 

Nel frattempo l’orologio corre. Il voto del 4 dicembre si avvicina. La partita bancaria è decisiva. Già scottato dal risanamento incompiuto delle quattro banche (Etruria, Marche, Carichieti e Cariferrara), preoccupato dalla crisi irrisolta delle popolari Venete, Renzi non può subire altre perdite. Sciogliere senza altri danni il “groviglio armonioso” di Siena, per lui, conta quanto una manovra economica.

 

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Ma deve farlo alla luce del sole. Assumendosi le sue responsabilità. Se salta una banca, salta il Paese. E se ci sono zone d’ombra, di qualunque natura, è ora che vengano illuminate. Il 23 dicembre 2015 il renziano Marcucci depositava alla Camera, per conto del Pd, il disegno di legge per la Commissione d’inchiesta sul sistema bancario. Il presidente del Consiglio esultava: «Ora finalmente andremo fino in fondo». È passato un anno. E della Commissione non c’è più alcuna traccia.