DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Sara Bennewitz e Andrea Greco per la Repubblica
La tentazione di Jean Pierre Mustier la riassume un banchiere d’affari che conosce bene il neo ad di Unicredit: «Quando c’è denaro in giro è meglio fare di più che fare di meno». Si parla di miliardi, quelli che verso febbraio la banca italo-tedesca chiederà per colmare le carenze patrimoniali. Fin qui la stima dell’aumento, mai confermata su cui convergeva il mercato, era circa otto miliardi. Somma già notevole, in relazione alla valutazione di Borsa del gruppo — 12,78 miliardi ieri, dopo un — 3,64% — sia perché cresciuta rispetto ai 5 miliardi ipotizzati in estate. Ma ora la somma dell’aumento, che sarà formalizzata il 13 dicembre a Londra nel piano di rilancio, sarebbe in ulteriore crescita: le note preparatorie porterebbero a 13 miliardi il massimo della forbice.
Unicredit non ha commentato. Tre sono i motivi che stanno inducendo il banchiere francese successore di Federico Ghizzoni a fare in grande. Il primo riguarda i sondaggi positivi con gli investitori, condotti anche da un pugno di banche d’affari — tra cui sono molto attive Ubs, Jp Morgan, Morgan Stanley — che hanno siglato preliminari intese verso la garanzia dell’emissione. E gli investitori, che in questi mesi hanno alleggerito molto il peso nel settore banche Europa, paiono intenzionati a giocarsi nel 2017 un rientro tramite Unicredit e Deutsche Bank (l’altra indiziata a una robusta ricapitalizzazione).
Il secondo motivo riguarda le cessioni in cantiere: Mustier non vuole che la fretta lo trasformi in cattivo venditore, e un aumento cospicuo gli può dare più tempo. Dopo la seconda tranche di Fineco, ieri in Borsa rimbalzata (+5,5%) per lo scampato pericolo di cessione integrale, sono da perfezionare la dismissione del risparmio di Pioneer e di Banca Pekao. Nel primo caso il management tratta con pochi big, e favoriti sono i francesi di Amundi (avrebbero offerto 4 miliardi) e la cordata Poste-Anima, finora spintasi a 3,4 miliardi. Per la controllata polacca l’acquirente unico è l’assicuratore Pzu, ma offre 3 miliardi mentre Unicredit ne vorrebbe 3,5.
Il terzo argomento di Mustier riguarda le continue richieste di patrimonio della Bce. Il caso Mps, che a dicembre tenterà il terzo aumento in tre anni con la pistola puntata di Francoforte, lo si vuole evitare; anche perché Unicredit sa di essere nel mirino della vigilanza, e le cose possono peggiorare con l’introduzione di Basilea 4. Un maxi aumento darebbe stabilità alla strategia futura, mettendo la banca al riparo da una Bce che da mesi ne guarda scettica l’indicatore patrimoniale Cet1, che a giugno era al 10,5% degli attivi ponderati sui rischi.
Sembra che la Bce voglia per Unicredit — unica banca italiana tra le 29 istituzioni sistemiche — un Cet1 ben superiore al 12%: e sono almeno 10 miliardi di rafforzamento tra aumento, cessioni e tagli di costi (a riguardo, si parla di nuovi esuberi, nell’ordine di alcune migliaia e concentrati in Italia, Germania, Austria).
Come la prenderanno le Fondazioni azioniste, abituate a comandare in Unicredit? Non bene: rischiano di ridursi ai minimi termini nel capitale. L’altro caveat per l’ad riguarda l’instabilità politica che il voto del 4 dicembre può riacutizzare. Ieri Moody’s ha scritto che «le quattro banche più deboli sono Mps, Carige, Veneto e Vicenza: dovranno ridurre i crediti deteriorati e ricapitalizzare. Ma la fiducia del mercato può essere colpita da un no al referendum e da eventuali dimissioni di Renzi, che potrebbero allontanare gli investitori».
Anche Unicredit tra l’altro studia il deconsolidamento di 20 miliardi di sofferenze, tramite la creazione di un veicolo di cui Fortress, Apollo o Pimco saranno chiamati a comprare fino al 25%.
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