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DAGOREPORT - BERLUSCONI ALLA SCALA SI È VISTO UNA SOLA VOLTA, MA IL BERLUSCONISMO SÌ, E NON AVEVA…
Camilla Conti e Luca Piana per "l'Espresso"
Si è presentato come l'uomo nuovo, l'unico in grado di far uscire la Banca Popolare di Milano dal vicolo cieco in cui si è infilata. E ha chiamato al suo fianco un pezzo da novanta come Lamberto Dini, ex premier ed ex direttore generale della Banca d'Italia, che ha annunciato di voler risolvere «i problemi della banca e i conflitti fra i soci».
A dispetto degli slogan utilizzati per la sua discesa in campo, Raffaele Mincione, 48 anni, finanziere con interessi a Londra e a Roma, non è però una new entry per la Popolare di Milano. Anzi. Come dimostra un carteggio che "l'Espresso" è in grado di rivelare, sono quasi due anni che, ai piani alti della banca, sul suo nome si sta combattendo una battaglia silenziosa, fatta di lettere, avvertimenti e interventi delle autorità di vigilanza.
Tutto nasce negli ultimi giorni del 2011, un periodo nel quale l'istituto milanese sembra vivere una vera e propria rivoluzione. Dopo anni di gestione condizionata dallo strapotere dei sindacati interni e dalle ingerenze della politica, al vertice è arrivato Andrea Bonomi, erede di una ricca dinastia di imprenditori milanesi e titolare di un fondo d'investimento chiamato Investindustrial.
C'è in ballo una pesante ricapitalizzazione, ben 800 milioni di euro, che costringe molti dei vecchi azionisti a farsi da parte. à a questo punto che Mincione fa il suo ingresso in scena. Con un blitz da 60 milioni di euro, il 3 gennaio 2012 rende noto di aver fatto incetta dei diritti per partecipare all'aumento di capitale, fatti cadere dai soci rinunciatari. E, in un colpo solo, diventa il secondo azionista della Popolare, con una quota dell'8,26 per cento.
Lo stupore è grande, anche per lo stesso Bonomi. Secondo fonti ben informate, infatti, Mincione in un primo momento aveva assicurato al presidente della Popolare che non sarebbe salito sopra il 5 per cento del capitale e che, comunque, intendeva comportarsi come un investitore istituzionale. Dopo i primi incontri tra i due, però, i contatti si sarebbero interrotti. Un po' perché lui avrebbe comprato più titoli del previsto. Un po' perché Bonomi temeva che il finanziere, corteggiato da alcuni capi sindacali vicini alla vecchia gestione, potesse passare dalla parte del nemico.
A Milano, in effetti, nessuno conosce Mincione, che racconta di essersi fatto le ossa nelle banche d'affari di Londra, guadagnando i suoi primi veri quattrini da raider consumato, con una fortunata scommessa sul rublo ai tempi del crac russo del 1998. Soprattutto, però, nessuno è in grado di dire che cosa il finanziere voglia fare della sua partecipazione.
Perché, sulla carta, quel pacchetto di titoli lui non potrebbe nemmeno tenerselo. L'articolo 21 dello statuto della banca, una popolare dove in assemblea si vota per testa e non in proporzione al numero di azioni possedute, è infatti chiaro: chiunque superi la soglia dello 0,5 per cento nel capitale, a meno che non sia un fondo d'investimento, ha tempo un anno per vendere le azioni in eccesso. E se non lo fa, gli vengono espropriati i diritti patrimoniali, che tornano all'istituto.
La discesa in campo di Mincione, dunque, dà il via a una complicata partita fra l'istituto, gli avvocati del finanziere, la Banca d'Italia e la Consob, l'autorità che vigila sui mercati. L'inizio, a dir la verità , è piuttosto soft. La Popolare guidata da Bonomi aspetta infatti ben quattro mesi per chiedere a Mincione la vendita dei titoli di troppo che possiede. E gli ricorda che, da quel momento, scatta l'anno previsto dallo statuto per portare a termine la cessione. Non si muove foglia fino all'ottobre 2012, quando è la Banca d'Italia a volerci vedere chiaro. Gli uomini del governatore Ignazio Visco chiedono alla banca milanese se ha effettuato le necessarie verifiche sui «nominativi» e la «natura giuridica» di chi ha passato la soglia dello 0,5 per cento nel capitale dell'istituto.
Mincione, infatti, non compare mai direttamente, ma ha comprato la sua partecipazione attraverso un'articolata struttura societaria che va dal Lussemburgo a Jersey, nelle isole britanniche della Manica, con tutte le limitazioni alla trasparenza che costruzioni simili comportano. Tanto che il 27 febbraio 2013 si muove anche la Consob, che domanda l'elenco nominativo di tutti i soci della First Names, la fiduciaria che figura come amministratore della capogruppo del finanziere, identificata in un trust chiamato The Capital Investment. Giusto per dare un'idea: in tutta la corrispondenza con le autorità , che "l'Espresso" ha potuto esaminare, la firma di Mincione non compare mai.
Qui arriva il secondo colpo di scena. Lo scorso 4 marzo, infatti, alla Consob viene recapitata una lettera della First Names nella quale la fiduciaria si impegna ad alienare nel giro di poche settimane i titoli della Popolare. Dopo una comunicazione del genere, chiunque si sarebbe aspettato un addio da parte di Mincione. Grande errore: il 26 aprile, infatti, i legali del finanziere comunicano che solo una piccola parte delle azioni è stata venduta. E che il grosso della quota (il 7,01 per cento) è stato distribuito fra 15 società lussemburghesi create ad hoc, battezzate da Pop 1 a Pop 15, tutte sempre riconducibili a Mincione.
Che la ripartizione sia un semplice escamotage sembra del tutto evidente. La Consob, però, si prende tre mesi per reagire. Lo fa con una lettera, datata 18 luglio, dove rimette la questione nelle mani della Popolare. Che, a stretto giro di posta, torna a incalzare Mincione. Avvertendolo che, se non provvederà a una vera vendita, dovrà far rispettare le regole, privando i suoi titoli - ad esempio - del diritto a incassare un dividendo.
A ben vedere, però, il tira-molla è tornato utile al finanziere romano-londinese. In due anni, infatti, la Popolare si è nuovamente arenata.
Bonomi ha tentato di imporre una trasformazione in società per azioni che è stata respinta. La bocciatura è arrivata sia da alcuni sindacati interni sia dagli azionisti terzi, che temevano di regalare il controllo della banca a Investindustrial, senza benefici per i soci di minoranza.
I quali, a fronte degli enormi profitti prevedibili per il fondo di Bonomi, sarebbero rimasti a bocca asciutta. Risultato: dopo aver spinto alle dimissioni l'amministratore delegato Piero Montani, passato a Carige, la guerra interna ha reso impossibile trovare un successore. E l'intero consiglio di gestione ha dovuto dare le dimissioni. Toccherà ora all'assemblea, prevista il 21 dicembre, dare un nuovo assetto all'istituto.
à proprio in questa impasse che Mincione ha estratto la carta Dini, spedito a prendere contatti con la Banca d'Italia. Perché, ora, le autorità giocano un ruolo decisivo. Se la Popolare si rivelasse ingovernabile, potrebbero infatti prendere decisioni radicali. Magari escludendo Mincione dalla possibilità di proporre una lista di candidati per il consiglio della banca. Una iattura per uno come lui che, dopo aver tenuto duro due anni, spera di passare all'incasso.
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