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Martino Cervo per “Libero quotidiano”
La cattiva notizia è che Google vuole la deflazione. Quella buona che ha 62 miliardi di dollari da spendere (50 miliardi di euro). La (rara) intervista concessa ieri al Financial Times dal 41enne Larry Page, CEO della multinazionale del web, è un piccolo squarcio sul mondo che ci attende.
Page, due figli, è il 17esimo uomo più ricco del mondo: il suo patrimonio personale ammonta a 30,1 miliardi di dollari e con Sergej Brin - cofondatore della G più nota al mondo - è l’unico under 50 nella classifica Forbes degli uomini più potenti della Terra.
Google Glass per migliorare il sesso di coppia
La «svolta» cui Page sembra ammiccare (link all’intervista: http://goo.gl/mC8f6f ) è uno scorrazzamento nell’hardware. Una nuova linea guida negli investimenti, che punti a nucleare, reti, robotica, biotech, alle industrie dei prossimi boom. Il modello? Warren Buffett. L’oracolo di Omaha, il più grande investitore nel mondo reale, diventa l’ispiratore della maggiore «repubblica digitale» del pianeta: «Ci stiamo procurando un capitale paziente, di lungo periodo», dice Page.
Può sembrare un passo indietro, un saluto alla bolla del web da parte dei suoi stessi padroni. Ma forse è un altro, più clamoroso «moonshot», l’espressione con cui la grande G descrive i progetti visionari, dai Google Glass alle auto senza guidatore. Il passaggio dei miliardi di Mountain View alla «old economy» è solo un’altra tappa di una conquista che non si ferma.
Peraltro in larga parte si tratta di soldi derivanti da un business distante dalla mission di Google: la pubblicità. Sotto l’apparente neutralità tecno-chic («don’t be evil» è l’unica sintesi ufficialmente approvata della filosofia di Palo Alto), Google è tra i maggiori attori del cambiamento tecnologico, culturale e antropologico del mondo contemporaneo, alla cui base non c’è un generico funzionalismo hi-tech, ma una precisa ideologia (la singolarità) che vede nell’integrazione tra natura e tecnologia un superamento della dimensione umana a colpi di miliardi e penetrazione nel quotidiano di miliardi di persone.
Page, indirettamente, lo conferma. Le sue idee su lavoro e occupazione sono queste: «Nove persone su dieci, se ne avessero la possibilità, smetterebbero il lavoro che stanno facendo». Ancora: «Il fatto che tutti debbano lavorare schiavisticamente per fare qualcosa di poco efficiente allo scopo di mantenere il posto di lavoro è una cosa che mi pare priva di senso».
Per il futuro Page vede un’ondata deflattiva (peraltro già in atto, come tristemente noto, almeno in Europa), che aspetta con un blando sorriso: «I computer faranno sempre più lavoro, e questo cambierà il modo in cui concepiamo il lavoro stesso. Non c’è niente da fare».
La rapida eliminazione della improduttività per via tecnologica avrà come conseguenza - secondo Page - il crollo dei prezzi (case, beni, servizi). La sua stessa laconicità nasconde giudizi politici brutali: «Come organizzare le nostre democrazie è un bel problema: se guardiamo al livello di soddisfazione negli Stati Uniti sta scendendo, non salendo. Ciò è preoccupante».
Anche la critica, appena accennata, sull’Europa «debole nel sostenere imprenditoria e tecnologia» cela una delle maggiori questioni aperte: la guerra fiscale tra Ue e big del web. Questo è il Google-pensiero: e se dalla rete si butta sul mondo non è un passo indietro, ma un tentativo di espansione del dominio.
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