
COME AL SOLITO, I GIORNALISTI ITALIANI SI FERMANO AI TITOLI: L’ARTICOLONE DEL “TIMES” SUI LEADER…
Giuseppe Sarcina per "Corriere della Sera"
Forse ha ragione l'editorialista del «Financial Times», Martin Wolf, quando sostiene che il premio Nobel Paul Krugman è, nello stesso tempo, l'opinionista «più odiato e più ammirato». Questo vale ancora per gli Stati Uniti e il resto del mondo, non più, a quanto pare, per l'Italia, dove l'economista americano sembra fare il pieno dei consensi. I leader di casa nostra, già in campagna elettorale, fanno a gara per strapparselo di mano. La sinistra riformista raccolta nel Pd lo considera da tempo un punto di riferimento irrinunciabile, il caposcuola del «neo-keynesismo», il teorico «dell'austerità temperata». Ma ora, attenzione, lo cita anche Silvio Berlusconi (ultima versione disponibile): vedete? Lo dice anche Krugman, per uscire dalla crisi, bisogna stampare moneta.
In questi giorni il professore nato ad Albany 59 anni fa, nipote di emigranti ebrei, due matrimoni, è, come sempre, impegnato su cento fronti polemici, dal deficit al futuro del partito repubblicano. Spesso imprevedibile, spiazzante. Prendete il giudizio su Mario Monti, per esempio, figura apprezzata dal presidente Barack Obama e portata sugli altarini del politicamente corretto dalla stampa americana. Bene, scrive Krugman sul «post» pubblicato dal «New York Times» l'11 dicembre: il premier italiano è semplicemente una «brava persona, profondamente sincera», ma le sue politiche economiche «hanno portato l'Italia nella depressione» (economica si intende).
Monti, «i tecnocrati responsabili», gli «eurocrati» «davvero sembrano come i medici del Medioevo; toglievano il sangue al malato per annientare l'infezione e quando il salasso lo rendeva ancora più debole, procedevano prelevando altro sangue». Forse Berlusconi trarrà ulteriore ispirazione da queste frasi. Andrebbe, però, avvisato che esiste un Krugman parte seconda.
Il professore di Princeton è entrato in pieno nel dibattito politico globale sostenendo tre tesi: non si esce dalla crisi senza rimettere in moto gli investimenti, anche attraverso la spesa pubblica; le diseguaglianze frenano la crescita; nella stagnazione le imprese aumentano i profitti a danno dei salari dei lavoratori. Nel suo libro forse più importante (e comunque più noto) «La coscienza di un liberal» (2007) l'economista americano precisa: «Negli Stati Uniti, per liberal si intende qualcosa di simile a un socialdemocratico in Europa». Dopodiché via con le critiche alla scarsa cultura finanziaria dei democratici americani. Difficile arruolare uno così.
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