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Virginia Piccolillo per il ''Corriere della Sera''
Lo sapevano tutti da anni su quelle colline incantate della Val d' Agria, bucherellate da decine di pozzi di petrolio, che quel puzzo di zolfo poteva non essere salutare. Ma lo avevano preso per pazzo il poliziotto, Giuseppe Di Bello, che per primo denunciò che i veleni di scarto dell' oro nero lucano non venivano trattati da rifiuti pericolosi, come nel resto del mondo civile, ma finivano, in parte, in miasmi esalati in grandi fiammate o nei ruscelli e nelle acque di falda che irroravano il lago del Pertusillo.
Il più grande rubinetto di acqua potabile a disposizione della Puglia e di una parte della Campania e della Basilicata. A migliaia morivano i pesci e nessuno credeva che fosse il caldo, come veniva detto dall' alto. Eppure Di Bello, un eroe per gli ambientalisti lucani, che mostrava analisi in cui i limiti di idrocarburi erano molto al di sopra dei limiti, si beccò una denuncia per procurato allarme (trasformata in rivelazione di segreto d' ufficio, dopo la morìa dei pesci).
VAL D AGRI BASILICATA PETROLIO
E così, mentre veniva prima sospeso e poi messo a fare la guardia a un museo d' arte folcloristica, le esalazioni di zolfo idrogenato continuarono. Assieme alle reiniezioni di acque reflue. Consentite se non vengono mescolate ad acidi velenosi. Come invece, secondo l' indagine del Noe dei carabinieri, veniva fatto in Lucania.
Un disastro ambientale, secondo il sospetto della procura di Potenza, che per essere formalizzato come accusa dovrà attendere i risultati di una perizia epidemiologica, appena iniziata sul Centro oli di Viggiano, sul Tecnoparco e sugli impianti in Valbasento.
Ma una cosa è certa, dalle analisi riportate nell' ordinanza di custodia cautelare e dalle intercettazioni, enormi quantità di acqua mista a veleni venivano reiniettate nel terreno. Per risparmiare. Bastava cambiare il codice. E lo smaltimento di quei rifiuti tossici sarebbe costato come quello delle acque reflue. Contemporaneamente «eventi torcia», come venivano chiamate le esalazioni tossiche, si ripetevano. I limiti di emissione di gas venivano superati di continuo. Anche 200 volte in meno di un anno. Sopra i limiti sempre i NOx (ossidi di azoto) e l' SO2 (ossidi di zolfo): i responsabili delle piogge acide.
Secondo la procura tutto avveniva con la consapevolezza dell' Eni e con la disattenzione sia dell' Arpa regionale che dell' assessorato all' ambiente. Conclusioni contestate dall' Eni con una nota: «Lo stato di qualità dell' ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il Centro Olio» di Viggiano (Potenza) «è ottimo secondo gli standard normativi vigenti».
Le quantità di acque miste a veleni reiniettate illecitamente nel terreno sono state, secondo il Noe, pari a 854.101 tonnellate solo fra settembre 2013 e settembre 2014. Fra i risparmi realizzati con pozzo Molina 2 e la frode dei codici dei rifiuti pericolosi, l' azienda avrebbe incamerato un ingiusto profitto compreso, scrivono i pm, fra i 44.284.071 e i 114.216.971 euro.
Poi c' erano le fiammate. Gli intercettati ne parlano come «il solito malfunzionamento» di un impianto che dopo un ampliamento faceva i capricci velenosi. Malgrado l' allerta che gli impianti inviano anche con sms ai responsabili, per avvertire l' Arpa o il comune di Viggiano entro 8 ore, l' Eni non era così tempestiva.
«La lasciamo aperta fino a data da destinarsi... ci inventiamo una motivazione perché non conviene scriverlo... troppe anomalie poi... niente facciamo il solito, la solita manovra», si dicevano al telefono. I pm ne hanno rilevati 208 solo fra il dicembre 2013 e il luglio 2014. Un po' di preoccupazione per i «trucchetti» cominciava a serpeggiare («mi si è gelato il sangue», si sente nelle intercettazioni). Ma la verità sarebbe stata un po' aggiustata anche quando degli operai erano finiti avvelenati al pronto soccorso.
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