DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Maurizio Ricci per “la Repubblica”
É una partita durissima, giocata a colpi di bluff sui mercati, da cui dipende l’assetto che il mondo del petrolio avrà nei prossimi anni. Gli schieramenti si intersecano e si incrociano, fra vecchi e nuovi protagonisti, con sintonie e scontri inattesi, dove, più che le alleanze di sempre, pesa il diverso impatto, su ognuno degli attori, della guerra dei prezzi in corso.
A trarne vantaggio, finora, chi delle guerre del petrolio è stato sempre spettatore impotente: i consumatori, almeno nei paesi in cui — diversamente dall’Italia — il crollo delle quotazioni del greggio si traduce in risparmi alla pompa. Ma le incognite della geopolitica sono un rischio per tutti. E alcune di queste incognite dovrebbero sciogliersi già questa settimana, in un vertice dell’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, che, dopo parecchio tempo, ritrova il ruolo di snodo decisivo.
L’innesco è il crollo del prezzo del greggio, colato a picco in meno di sei mesi, da 110 dollari al barile a 80 in Europa e 75 dollari in America, con una decurtazione del 30 per cento. Il motivo è noto: il boom del petrolio da fracking dei pozzi americani, che ormai vale oltre 3 milioni di barili di greggio al giorno, quasi il 3 per cento della produzione mondiale, ha saturato l’offerta mondiale di petrolio, a cominciare da quella americana. Grazie al fracking, gli Usa, storicamente i maggiori acquirenti di greggio sul mercato mondiale, hanno visto le loro importazioni crollare.
Quelle dai paesi dell’Opec sono al livello più basso degli ultimi 30 anni. E’ un fenomeno in corso da qualche anno, ma, finora, il suo impatto era stato mascherato dalle difficoltà di altri produttori, come Libia e Nigeria. Negli ultimi mesi, però, i due paesi africani sono tornati a produrre normalmente, mentre le difficoltà dell’economia mondiale hanno tenuto bassa la domanda di petrolio. Il risultato è un surplus di greggio sui mercati e un crollo dei prezzi.
Niente di nuovo. E’ già capitato spesso in questi anni. Quello che pochi si aspettavano è che l’Arabia saudita, la mano decisiva del petrolio mondiale, non facesse quello che ha sempre fatto: tagliare la propria produzione, in modo da ridurre l’offerta e far risalire i prezzi. Riad, invece, non ha battuto ciglio, accettando le quotazioni più basse. Anche qui, nonostante le smentite ufficiali, il motivo è chiaro: mettere fuori mercato il petrolio americano da fracking, che ha costi di produzione alti.
Naturalmente, ogni pozzo Usa ha i suoi costi di estrazione: si va da 47 dollari a barile fino a 137, a secondo delle condizioni. Tuttavia, le grandi banche di investimento calcolano un costo medio di estrazione di 75 dollari, che è il prezzo attuale. A queste quotazioni, il 15-20 per cento di quei 3 milioni di barili da fracking è destinato a rimanere nel sottosuolo. In realtà, molti analisti americani sono convinti che i protagonisti del fracking siano in grado di ridurre i propri costi e reggere meglio l’offensiva di Riad. Ma potrebbe non bastare. Il fracking richiede interventi continui sui pozzi, che si esauriscono rapidamente e comportano un ritmo alto di nuove trivellazioni. In una parola, investimenti che, in questo clima di prezzi, potrebbe essere più difficile finanziare. In buona misura, sta già avvenendo.
La scommessa dei sauditi, dunque, è vincente? Non è detto. Gli alfieri americani del fracking non sono i soli ad avere bisogno di quotazioni alte del greggio per far quadrare i conti. I petrolieri di Houston si ritrovano — presumibilmente con qualche disagio — spalla a spalla con gli ayatollah di Teheran, i chavisti di Caracas e gli oligarchi di Mosca. Nella stessa situazione, in realtà, sono quasi tutti i paesi esportatori, dentro e fuori l’Opec, in qualche misura sauditi compresi.
Nel caso dei produttori tradizionali, il problema non è il costo di estrazione del greggio, normalmente assai basso. È che i soldi del petrolio servono a far quadrare i bilanci pubblici. Due terzi degli incassi dello Stato nigeriano vengono dal petrolio e, per far quadrare il bilancio pubblico, il grande paese africano avrebbe bisogno di una quotazione del greggio a 128 dollari al barile, altro che 80. Per colmare la differenza, nelle casse pubbliche ci sono solo 40 miliardi di dollari. In una situazione analoga ci sono Libia, Iran, Venezuela.
Solo gli emirati del Golfo non hanno queste apprensioni. Gli stessi sauditi avrebbero bisogno di un prezzo più alto dell’attuale, ma hanno i forzieri abbastanza pieni da poter reggere ancora a lungo la guerra dei prezzi. Ma possono reggere anche l’assedio politico che li aspetta, nei prossimi giorni, nelle riunioni di Vienna? Il pallino è nelle loro mani. Nessun altro paese può ridurre in misura significativa la produzione per rianimare i prezzi, perché significherebbe veder affondare la propria spesa pubblica.
Solo i sauditi hanno i polmoni finanziari per farlo. Ben sapendo che far risalire i prezzi significherebbe ridare fiato ai concorrenti americani, ma anche i nemici storici dell’Iran sciita e l’assai poco amata Russia di Putin. La geopolitica è materia complessa e nel petrolio non c’è mai solo il petrolio.
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