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Luigi Grassia per “la Stampa”
Il super-gasdotto South Stream può risorgere dalle ceneri. E l’italiana Saipem potrebbe posare i tubi sottomarini dell’opera sostitutiva lavorando per lo stesso committente (la russa Gazprom) e nella stessa zona (il Mar Nero). Il South Stream avrebbe dovuto connettere i Balcani (e quindi l’Europa tutta) direttamente con il Caucaso russo, facendo transitare il metano sotto al Mar Nero, senza più passare per l’Ucraina. Ma a fine 2014 i disaccordi politici fra Mosca e Bruxelles hanno bloccato tutto. Il che non significa che la situazione resti congelata.
Pochi giorni fa la Gazprom ha sparigliato le carte: ha fatto sapere che costruirà un gasdotto alternativo sotto al Mar Nero, ma stavolta in direzione della Turchia. E infatti si chiamerà Turkish Stream. Sarà una mega opera, capace degli stessi 63 miliardi di metri cubi all’anno del defunto South Stream. Ma l’idea non è di vendere tutto questo metano alla Turchia. Mosca dice che quando il nuovo gasdotto sarà operativo, chiuderà per sempre quello attraverso l’Ucraina. Dopodiché gli europei sono avvertiti: se vorranno continuare a ricevere il metano russo, dovranno andare a prenderselo in Turchia, e pensino loro a connettersi con la rete di tubi turca.
Come entra la Saipem in questo discorso? La società italiana avrebbe dovuto posare il gasdotto South Stream e incassare 2,4 miliardi di commesse. Adesso che i contratti sono stati annullati (sospesi, per essere più precisi) la stessa Saipem ha diritto a 1,5 miliardi di penali a carico di Gazprom, che si è ricomprata le quote della società South Stream appartenenti agli i azionisti occidentali. Ma questo punto: chi poserà i tubi di Turkish Stream?
da south stream a turkish stream
L’identikit è facile. Qualche anno fa la Saipem ha realizzato (guarda caso) un gasdotto sottomarino fra il Caucaso russo e la Turchia; si chiama Blue Stream e ha una portata di una decina di miliardi di metri cubi all’anno. Adesso per la Saipem si tratterebbe di costruire un secondo metanodotto nelle stesse acque (con le prospezioni già fatte e le tecnologie che Saipem ha già sviluppato) ma sei volte più grande. Da parte di Gazprom scegliere Saipem come operatore porterebbe a un accordo economico su contratti e penali che faccia felici tutti, come se il South Stream fosse stato realizzato.
Che cosa potrebbe impedire questa soluzione? Non le sanzioni europee per la crisi in Ucraina, perché colpiscono sì l’export di tecnologie petrolifere verso la Russia, ma non la posa dei tubi del gas, per la quale Saipem aveva avuto il nulla-osta a Roma del ministero dello Sviluppo, che automaticamente comportava quello dell’Ue. E infatti fino a pochi giorni prima che il progetto South Stream venisse sospeso, la Saipem continuava a lavorarci come niente fosse, e quando è arrivato lo stop nessuno (né a Bruxelles né a Mosca) ha indicato come motivo le sanzioni.
Conferma Alberto Clò, ex consigliere di amministrazione dell’Eni e direttore della Rivista Energia del Rie: «C’è un po’ d’incertezza giuridica sul perimetro delle sanzioni, ho chiesto alcuni pareri legali, ma sembra che i divieti si limitino a colpire i progetti petroliferi nell’Artico e nell’off-shore». Così Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: «Sono coinvolte le attrezzature di perforazione, e quelle per costruire le piattaforme marine. Ma quelle per posare i tubi sembra di no». Caso mai, le sanzioni occidentali possono porre un problema indiretto di accesso al credito, ma Gazprom è un’azienda solvibile, e se vuol realizzare il progetto i soldi li trova - del resto sono soldi che, in gran parte, dovrebbe girare alla Saipem comunque. Se uno più uno fa due, il futuro è scritto.
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