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Alessandro Penati per "la Repubblica"
Dal vertice del G20 di domenica è emersa l´indiscrezione di un piano di salvataggio da 3.000 miliardi per superare la crisi dell´Eurozona. C´è una buona notizia: i governi hanno finalmente capito che la sopravvivenza dell´euro non è scontata. Hanno capito che per assicurargli un futuro bisogna mettere in sicurezza le banche dell´area.
L´annuncio ha sortito l´effetto desiderato. Ieri, i bancari in Borsa hanno fatto festa. E una cattiva: il piano è l´ammissione che il default della Grecia è ormai dato per molto probabile, quasi inevitabile, tanto che si pensa solo a limitarne le conseguenze. D´altronde, il rendimento del debito greco a due anni è arrivato in questi giorni al 70%.
Il caso greco dimostra che c´è un limite alla caduta del reddito che si può imporre a uno Stato sovrano. Le politiche di austerità si sono rivelate insufficienti perché il Pil della Grecia è sempre caduto più del previsto, riducendo le entrate fiscali e richiedendo altra austerità , in un circolo vizioso che in tre anni ha fatto contrarre l´attività economica del 16% (più un altro 2% previsto per il 2012). A questi livelli, onorare il debito diventa socialmente insostenibile, e un default può essere meno costoso. Il Pil argentino era sceso del 18% nei tre anni precedenti al suo default.
Un default greco avrebbe due conseguenze sulle banche. Quelle greche diventerebbero insolventi: il debito pubblico che detengono è il doppio del loro patrimonio, che verrebbe spazzato via dalla cancellazione del valore del debito. Le altre nell´Eurozona subirebbero pesanti perdite a causa del dissesto di banche e Stato greco, ma anche della prevedibile caduta dei titoli di stato di Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia (la dimensione del piano, 3.000 miliardi, indica che si ha in mente l´Italia; per Grecia e Portogallo ne basterebbero molti di meno). Venendo a mancare la fiducia, le banche smetterebbero di finanziarsi tra di loro, innescando una crisi di liquidità che porterebbe alla paralisi del credito e alla recessione.
L´obiettivo del piano è bloccare quest´ultima fase, limitando l´impatto recessivo di un eventuale default. Agendo sulla falsariga del Tesoro Usa che, per fronteggiare la crisi dei mutui subprime e il fallimento Lehman, ha comprato dalle banche le loro attività di dubbio valore e illiquide, e le ha ricapitalizzate; mentre la Fed ha facilitato il finanziamento del Tesoro con acquisti massicci di debito pubblico e credito illimitato alle banche.
Ma gli Stati Uniti avevano le istituzioni e la volontà politica per farlo; l´Eurozona non ancora. L´unica istituzione che potrebbe gestire oggi il piano di salvataggio è lo European Financial Stability Facility (Efsf), noto come Fondo salva-stati (ma bisognerebbe chiamarlo salva-banche).
L´aumento della sua dotazione a 440 miliardi, che gli Stati dovrebbero ratificare entro metà ottobre, non è più sufficiente. L´onere di un ulteriore aumento ricadrebbe sulla Germania, la cui Corte Costituzionale ha autorizzato l´Efsf, ma ponendo severe condizioni per ogni futuro impegno tedesco, che dovrà essere approvato dal Parlamento, limitato nel tempo e non tale da costituire un onere eccessivo per le finanze pubbliche. Ma la quota della Germania in un piano da 3.000 miliardi ammonterebbe al 32% del suo Pil; che in più si dovrebbe accollare la quota parte di Italia e Spagna nel caso il Fondo intervenisse in loro sostegno.
Olanda, Austria e Finlandia sono recalcitranti a finanziare l´attuale Efsf; difficile che accettino ulteriori impegni. C´è poi il problema del sostegno alle banche: probabile che Francia e Germania intervengano nel capitale delle loro banche, ma politicamente impraticabile che lo facciano, seppure attraverso l´Efsf, in quello delle banche degli altri paesi. Eppure il piano di salvataggio richiederebbe questo. Impensabile infine che sia la Bce a finanziare il Fondo salva-stati, sostituendosi di fatto a quest´ultimo, come qualcuno ha proposto.
Nonostante queste difficoltà , il finanziamento del piano potrebbe non essere il problema maggiore. Perché si ipotizza implicitamente che un eventuale default della Grecia non causi una sua uscita dall´euro. Improbabile. Il dissesto delle banche greche provocherebbe una corsa agli sportelli e una fuga massiccia dei capitali. Inevitabile l´imposizione di controlli ai movimenti di capitale e vincoli all´utilizzo dell´euro all´interno del paese. Si genererebbe così un mercato parallelo dell´"euro greco".
Lo Stato inoltre non avrebbe euro per pagare gli stipendi e ricapitalizzare le banche, e potrebbe avere convenienza a ricominciare a stampare una propria moneta. Senza contare che una volta dichiarato default conviene svalutare per rilanciare l´economia. La speranza di una scissione controllata dall´euro è, pertanto, soltanto una speranza. Perché nessuno può sapere con certezza cosa accadrebbe in questo caso. Per ora, l´effetto annuncio del piano G20 ha calmato i mercati. Ma è ancora troppo presto per affermare che questo è il primo passo che porterà l´Eurozona fuori dalla crisi.
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