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Serena Tibaldi per https://d.repubblica.it/
harry styles e alessandro michele di gucci versione gender fluid
Meno male che c’erano gli Italiani, perché senza di loro il red carpet di quest’edizione del Met Gala sarebbe stata ben poca cosa. E sì che il tema prometteva bene, visto che si parlava di camp (il titolo della mostra, aperta dal pubblico da giovedì 9 maggio, è “Camp: Notes on Fashion”): l’artificiale, l’esagerato, il finto, l’eccessivo; per un gala tutto dedicato all’apparire come quello del Metropolitan Museum, un tema simile era una passeggiata di salute. Basti pensare che l’anno scorso, in occasione della mostra dedicata all’estetica cattolica, c’è stato chi s’è presentato vestito da papa (Rihanna), o con un presepe montato sulla testa (Sarah Jessica Parker).
E invece non è stato così: in troppi hanno preferito evitare il rischio di non apparire “classicamente” belli optando per mise decisamente più sicure, dunque blande, dunque noiose. Il che, quando si ha a che fare col camp, è un peccato mortale. Lo aveva preannunciato Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, che durante la preview aveva previsto che “La vera exhibition stavolta sarà il red carpet, più che le sale in mostra”; lo stilista ha parlato con cognizione di causa, visto che tra le sue ospiti c’è stato uno degli assi indiscussi della serata, una Joan Collins in pieno look Dynasty che ha mandato in visibilio tutti, dimostrando che in certi frangenti credere fino in fondo a ciò che si fa, allontanandosi pure dal seminato, sia la cosa migliore.
Ma si parlava di salvatori italiani della serata al plurale, e così è stato. Da Gucci, main sponsor della mostra, il tavolo presieduto da Alessandro Michele pareva una lezione su cosa sia camp oggi (e infatti l’accoppiata tra il marchio e il museo è una delle più indovinate di sempre, visto il fulcro di tutto), tra lo stilista in lamé, Harry Styles in blusa di chiffon nera , Florence Welch e Saoirse Ronan trasformate in pregevoli memorabilia kitsch e Jared Leto con sua testa sottobraccio e abito lungo rosso sangue. Benpensanti scandalizzati: segno che il look era giusto.
Discorso analogo per Versace, con una strepitosamente sopra le righe Lupita Nyong’o a far vedere cosa significhi davvero “dress to impress”, e Prada, dove Elle Fanning in Miu Miu pareva la versione pompata a mille delle valley girls degli anni ’60. E poi c’era la corazzata Moschino, un marchio senza cui questa mostra non avrebbe nemmeno ragion d’essere. Le rappresentanti del brand erano talmente tante da arrivare non in limousine, ma in torpedone monogrammato. A vincere è stata Katy Perry vestita da lampadario (funzionante), che durante le foto canticchiava allegra “Chandelier” di Sia. Pure questo è total look.
katy perry diane von furstenberg
Per il resto, picchi relativi: persino l’arrivo di Lady Gaga, con 4 cambi e carrellino portabibite al seguito, non era camp più di tanto (teatrale sì, camp no). A riaddrizzare le cose ci sono volute Celine Dion in versione ballerina di Las Vegas e le tanto odiate e vituperate sorelle Kardashian - Jenner a risollevare la serata. Le ragazze, grazie a una vita passata sotto le telecamere, col camp ci sono cresciute, e non hanno alcun problema a usarne l’immaginario. E se Kim in versione omaggio a Sophia Loren era notevole, a strappare gli applausi sono state le più piccole, Kendall e Kylie, che hanno dichiaratamente preso spunto dalle sorellastre di Cenerentola, Genoveffa e Anastasia. Chi l’avrebbe mai detto: meno male che c’erano loro. O per meglio dire: loro e Cher, che s’è esibita cantando Waterloo degli Abba. Camp all’ennesima potenza. Almeno lei.
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