Paolo Giordano per www.ilgiornale.it
Intanto applausi all'Orchestra Popolare: raramente, e forse è un record, una orchestra riesce a suonare a così alti livelli per così tanto tempo. Tre ore, tre ore e mezzo. Per di più di fronte a decine e decine di migliaia di spettatori, sembra almeno centomila. Suono compatto, solisti impeccabili, virtuosismi eseguiti con nonchalance a bordo di strumenti delicatissimi come tamburello e fisarmonica.
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Nell'enorme piazzale davanti all'ex convento degli Agostiniani, sabato sera dalle 22.44 (orario cronometrato tipo sbarco sulla Luna), La Notte della Taranta è diventata un'altra volta una gigantesca liturgia che ha avvolto un pubblico di padri, figli e nonni, insomma realmente transgenerazionale e soprattutto imprevedibile perché lo trovate solo qui.
Solo qui ci sono giovani con le nacchere che accompagnano la musica dalla platea e solo qui giovanissimi ballano o cantano musiche vecchie di secoli come se fossero le ultimi hit da classifica, proponendo a distanza di centinaia di metri dal palco gli stessi movimenti coreutici che si vedono in scena.
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Un successone, bisogna dirlo, che è merito di una organizzazione visionaria e di un «maestro concertatore» come Carmen Consoli da mesi qui nel Salento per organizzare nel dettaglio uno dei festival più significativi e popolati d'Europa. «Questa Notte della Taranta è fimmina ha detto all'inizio arrivando in scena prima di accogliere in sequenza tante interpreti di profondità incontestabile come ad esempio Nada, Fiorella Mannoia, Tosca o addirittura Lisa Fischer, per decenni regina al femminile dei concerti dei Rolling Stones (favolosa nel duetto di Gimme Shelter).
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Ma il giorno prima, traghettando lo spettacolo nel mare magnum di polemiche sulla messa in scena di uno spettacolo così popolare nel giorno di lutto nazionale per il terremoto (al quale è stato dedicata una capillare raccolta fondi e il versamento dei cachet di tutti i protagonisti), aveva spiegato che «la taranta non è il Carnevale, è una musica che parla di un viaggio di dolore verso la guarigione».
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In poche parole, è lo strumento popolare che, in questa meravigliosa landa selvatica e virtuosa, per secoli ha accompagnato non soltanto i «morsicati» veri o presunti dal ragno tarantola ma chiunque avesse bisogno di essere «scazzicato», ossia stimolato, dopo o durante un dolore o una malattia. Una musica tribale. Una musica ben più remota di quanto riferiscano le carte storiche apparse da quando, nel 1797, i cronisti al seguito di Ferdinando IV di Borbone la ascoltarono ufficialmente per la prima volta.
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Perciò la «taranta» è un patrimonio collettivo che qui, nel cuore del Salento più caldo e isolato, si declina con canti di cui è difficile comprendere il senso letterale (dialetto strettissimo) ma di cui è facile cogliere il senso di condivisione e catarsi. Lo colgono le bambine che, perse tra il pubblico ai lati del palco, eseguono i passi di danza come se fossero un patrimonio innato.
E lo colgono le decine di migliaia che, tra cibo tradizionale e abbondanti bevute, sul prato pulsano al ritmo della musica con un'attenzione più liberatoria che divertita, quasi fosse un ritorno a un passato che hanno vissuto con gli occhi e il cuore degli antenati. Uno spettacolo di suoni, colori e dialetti unico al mondo, talvolta quasi ancestrale ma quasi inconsapevolmente purificatorio.
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E mentre Carmen Consoli era un tutt'uno con le note, dirigendole o cantandole o applaudendole ma sempre nuotandoci dentro, il rito notturno e sanguigno della musica ha lavato, come fa da secoli, un dolore antico che per convenzione si tiene nascosto tra le pieghe della vita.