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    GUERRA DI GRAN CARRERE - “A QUESTO PUNTO DEL CONFLITTO NULLA SI PUÒ ESCLUDERE, NEPPURE IL RICORSO ALL’ARMA ATOMICA” – "PUTIN? LA SUA NON E’ FOLLIA, E’ UN INCREDIBILE ERRORE DI VALUTAZIONE. SI ERA CONVINTO CHE UNA PARTE DEGLI UCRAINI AVREBBE ACCOLTO I RUSSI COME LIBERATORI. PUTIN RESTERÀ A LUNGO AL SUO POSTO? NESSUNO PUÒ DIRLO. NOI CONOSCIAMO POCO LA RUSSIA PROFONDA - VOTERÒ MACRON, LA SUA È UNA DESTRA CHE INCLUDE E AGGREGA. LA GUERRA L’HA AIUTATO. HA MESSO FUORI GIOCO ZEMMOUR". E SU MARINE LE PEN...


     
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    Aldo Cazzullo per corriere.it

     

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    Emmanuel Carrère faccia a faccia è una persona molto gentile, quasi dolce. Parla lentamente, cerca le parole e le soppesa. L’uomo che la comunità del Corriere, con il referendum della Lettura, ha scelto come lo scrittore del decennio è anche l’autore di quello che in Francia è il film del momento: Ouistreham, in italiano Tra due mondi  La protagonista è Juliette Binoche. L’opera è tratta dal libro-inchiesta di Florence Aubenas, la giornalista che ha vissuto in incognito per sei mesi con le donne delle pulizie sui traghetti che attraversano la Manica.

     

    Una discesa agli inferi della precarietà, della povertà, dell’esclusione. Un racconto che aiuta a capire meglio la Francia in un tornante della sua storia: alla vigilia delle elezioni presidenziali, nel pieno della peggiore crisi europea dal tempo della seconda guerra mondiale. E Carrère, da poco rientrato a Parigi da Mosca, figlio della prima donna a capo dell’Académie française, nipote di un esule georgiano e di un’esule russa, è la persona che può aiutare meglio la comunità del Corriere a capire.

     

    Emmanuel, lei tempo fa scrisse un delizioso articolo intitolato «Come ho completamente fallito la mia intervista a Catherine Deneuve».

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    «Ero emozionato. Le chiesi: per lei è importante il rigore, vero? Mi rispose che in effetti il rigore per lei era molto importante. Proseguii: per lei è importante la coerenza, vero? Era importante anche la coerenza. Insomma, non feci nessuna vera domanda, e non ottenni nessuna vera risposta».

     

    Lavorare con Juliette Binoche è stato più facile?

    «É stata lei a cercarmi. Il film nasce per sua iniziativa. Un lavoro molto particolare: girare con attori non professionisti, con vere donne delle pulizie. Non è stato facile per Juliette: una vedette, una star mondiale».

     

    L’unica attrice ad aver vinto l’Oscar e i tre più importanti festival europei: Venezia, Cannes, Berlino.

    «All’inizio c’era diffidenza. Ma lei è stata talmente amichevole, talmente gentile — davvero non mi viene un’altra parola —, che l’imbarazzo è sparito fin dal primo giorno. Sapevo che era una grande attrice, ma non la sapevo così generosa, e così umile. Ha un modo tutto suo di mettere la gente davanti a sé, di nascondersi dietro gli altri. Anche questo è talento. Girare è stato faticoso, ma tutto è avvenuto in un clima molto disteso, quasi felice».

     

    La Aubenas non voleva fare il film.

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    «É stata Juliette Binoche a convincerla. Il libro è eccezionale, ma se fosse un film sarebbe un documentario. Non c’è la parte retrospettiva, non c’è quello che prova l’autrice nell’immergersi in una condizione diversa, nel vivere una vita che non è la sua. Ma a me interessava anche questo».

     

    Quindi Marianne, la protagonista del film, è anche un personaggio autobiografico?

    «Marianne è un po’ Florence, la giornalista, un po’ Juliette, l’attrice, e un po’ me».

    Ma nel film non c’è il lieto fine. La giornalista viene scoperta. Come prova d’amicizia, Christèle, una donna delle pulizie, le chiede di tornare a lavorare sul traghetto, al suo fianco, almeno una notte. Ma lei rifiuta.

    «Sì, i due mondi restano separati. La maggioranza delle persone che si sono ritrovate nel libro ne sono state contente; ma Christèle, la donna diventata davvero amica dell’autrice, non la perdona. Sarò pessimista, però non è detto che tutte le barriere siano destinate a cadere. E la lotta di classe esiste ancora».

     

    Torna in mente la frattura sociale, il tema su cui Chirac vinse le elezioni nel 2002.

    «In vent’anni la frattura sociale non si è saldata. Anzi, si è aggravata».

     

    Domenica prossima si vota per il primo turno delle presidenziali.

    «I ceti popolari non voteranno a sinistra. Il partito comunista è marginale da tempo; anche se stavolta presenta una candidato, Fabien Roussel, che raccoglie qualche simpatia. Alcuni tra i miei amici lo sosterranno».

    Ma i due candidati di estrema destra, Marine Le Pen ed Eric Zemmour, saranno oltre il 30 per cento.

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    «La Marine Le Pen di oggi potrebbe candidarsi alla presidenza di Sos Racisme, l’associazione antirazzista (Carrere sorride). É gentile con tutti, non vuole male a nessuno… E anche il pericolo Zemmour si è un po’ ridimensionato. Putin gli ha nuociuto, tanto quanto ha giovato a Macron».

     

    Come mai?

    «Non soltanto perché Zemmour non ha più potuto usare la Z, simbolo della sua campagna, divenuta l’emblema dell’invasione russa. Ma perché la guerra, con la pandemia, ha suonato un po’ l’ora della raccolta. Un richiamo all’ordine».

     

    Zemmour è uno strano populista: un intellettuale con gli occhialini.

    «Sì. Ma la sua lettura della storia francese è costernante: spaventosa».

    A cosa si riferisce?

    «Non è vero quel che lui sostiene, che Vichy abbia sacrificato gli ebrei stranieri per proteggere gli ebrei francesi. É un falso storico, una tesi apertamente revisionista e reazionaria. Al contrario, Vichy ha mostrato un certo zelo nella persecuzione degli ebrei».

     

    Zemmour è teorico del Grand Remplacement, della sostituzione etnica: secondo lui gli immigrati islamici stanno prendendo il posto dei veri francesi.

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    «E propone un ministero per la Re-immigrazione, per innescare il percorso inverso. Non a caso il suo slogan è “Riconquista”. Ripeto: spaventoso».

    Ma sono idee presenti nella società francese.

    «Certo. Ma sempre spaventose restano. La guerra di Putin è una tragedia; però se non altro ha contribuito ad affossare la candidatura Zemmour e ad aiutare Macron».

     

    Perché?

    «Perché il presidente si pone come mediatore internazionale, e queste cose ai francesi piacciono».

     

    Si sta muovendo bene?

    «Ci prova. Fa quel che può. Manifesta la volontà di una soluzione diplomatica. Non so quanto sarà efficace; però non è un male».

     

    É stato un buon presidente?

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    «Non mi convince del tutto. Ma lo voterò, perché l’offerta politica è questa. E credo che sarà rieletto».

     

    Come mai la destra repubblicana, neogollista, che ha governato la Francia per decenni, non riesce a esprimere un leader?

    (Carrère riflette a lungo, prima di rispondere in poche parole).

    «La destra repubblicana è Macron. Macron è un presidente di destra».

     

    Ma lo vota anche la sinistra riformista. La candidata socialista, la sindaca di Parigi, nei sondaggi è al 2 per cento.

    «Appunto: Macron è l’uomo di una destra honorable, dignitosa, che allarga, che aggrega».

    A sinistra però crescono le quotazioni di Jean-Luc Mélenchon.

    «Non mi piace né quel che dice, né come lo dice”».

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    Lei era a Mosca quando è scoppiata la guerra.

    «Sì, e mi sono fermato, per tentare di capire quel che stava accadendo».

    Che idea si è fatto? Putin è impazzito?

    «Non è follia; è un incredibile errore di valutazione. Putin si era convinto che una parte degli ucraini avrebbe accolto i russi come liberatori. Come l’assassinio del duca di Enghien, l’invasione dell’Ucraina c’est plus qu’un crime; c’est une faute».

     

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    É peggio di un crimine; è un errore.

    «Putin è sempre più isolato dal mondo. Non ha Internet, non ha contatti con la stampa straniera. Legge solo quello che gli scrivono, e gli scrivono solo quello che vuol leggere. Frequenta preferibilmente preti nazionalisti e invasati. Non sa nulla di quel che accade davvero fuori dal Cremlino».

    Ma ha ancora consenso?

    «Difficile misurarlo. I sondaggi non aiutano. Tutti gli istituti di sondaggi sono finanziati dal governo; e la gente non dice mai la verità ai sondaggisti. Quando parlavo con la gente a Mosca, mi colpiva che tutti evitassero la parola guerra. Poi ho capito: solo a chiamarla guerra si rischia di finire in galera; bisogna chiamarla operazione speciale. Da qui la battuta su Tolstoj, che scrisse “Operazione speciale e pace”».

     

    Putin resterà a lungo al suo posto?

    «Nessuno può dirlo. Noi conosciamo poco la Russia profonda. Il 70 per cento dei russi non ha il passaporto. Ma se all’inizio le sanzioni hanno fatto male soprattutto ai russi amici dell’Occidente, che si sono ritrovati senza Netflix e carte di credito, alla lunga anche la Russia profonda ne risentirà. Quando vedrà che il suo potere d’acquisto sta crollando, il popolo reagirà. Purtroppo ci vorrà molto tempo, e molto dolore. Putin non sta soltanto massacrando un altro Paese; sta distruggendo il suo».

     

    In Italia tanti dicono che la situazione è più complessa, e Putin ha le sue ragioni.

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    «Bisogna sempre indagare le ragioni di chiunque; e la verità non ha mai entrambi i piedi nello stesso campo. Ma siamo di fronte a un’aggressione talmente enorme, che non possiamo non schierarci, non scegliere la parte con cui stare. E la parte con cui stare è il popolo ucraino».

     

    Ha paura dell’escalation nucleare?

    «Certo che ho paura. Nessuno, tranne forse i servizi segreti americani, credeva davvero che Putin avrebbe invaso l’Ucraina. A questo punto nulla si può escludere, neppure il ricorso all’arma atomica».

     

    Tra Francia e Russia c’è un rapporto eterno. Condividono il nemico storico, la Germania.

    «Non solo: la grande cultura francese è russofila, la nostra letteratura si nutre di quella russa; e la grande cultura russa è francofila. Anche se nella Russia di oggi di questa francofilia non resta più molto».

    Sua madre, Hélène Carrère d’Encausse, da ragazza si chiamava Zourabichvili. Quando era bambino le parlava russo?

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    «Un po’. Purtroppo lo parlo male. Sua madre Nathalie, mia nonna, era russa di San Pietroburgo, ma già prima della Rivoluzione viveva in Italia, vicino a Firenze. Mio nonno era georgiano. Scomparve nel 1944, forse fucilato in quanto collaborazionista. In realtà, conosceva il tedesco e faceva l’interprete. Molti colpevoli la fecero franca, e molte persone pagarono per quel poco che avevano fatto. É andata così anche in Italia».

     

    Lei ha scritto un libro su suo nonno. E anche sulla sua malattia, per cui l’hanno sottoposta all’elettrochoc. A proposito, com’è l’elettrochoc?

    «É come resettare un computer o un telefonino; solo che si perde qualche dato. La memoria a breve termine svanisce».

    Come riesce a mettere il suo cuore a nudo, come Baudelaire?

    marine le pen ed emmanuel macron marine le pen ed emmanuel macron

    «Non c’è nulla di cui vergognarsi. Non sono cattive azioni; sono prove. Possono toccare a chiunque. Raccontarle può far bene a sé e agli altri».

     

    Lei ha scritto più volte: non sono un uomo buono. L’artista è cattivo, come si diceva nella Parigi di Braque e Picasso?

    «Non sono buono, ma non sono neanche cattivo. Sono un uomo che ha una preoccupazione morale. San Paolo lamentava: “Non compio il bene che voglio, e commetto il male che non voglio”. Dell’imperatore Tito si diceva che non fosse buono di natura, ma si sforzasse di esserlo».

     

    eric zemmour illustrazione the spectator eric zemmour illustrazione the spectator

    Però alla fine anche il suo film «Tra due mondi» dimostra che immedesimarsi nel dolore altrui è impossibile. Non possiamo vivere «D’autres vies que la mienne», «Vite che non sono la mia», per citare un altro suo libro.

    «Ma vale comunque la pena di immaginarle. Soprattutto, dobbiamo cercare di immaginare quella che avrebbe potuto essere la nostra vita, e quella che sarebbe in determinate circostanze: a fare le pulizie sui traghetti che attraversano la Manica; o sotto le bombe russe».

     

    Lei ora sta seguendo il processo per la strage del Bataclan. Da dove nascono i terroristi islamici? Dall’esclusione sociale? O dalla rivendicazione culturale?

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    «Non lo so. É una questione su cui sto riflettendo; perché non solo raccoglierò i miei articoli sul processo, ma scriverò un altro libro sullo stesso tema. Le due ipotesi, la povertà e l’orgoglio delle nuove generazioni, possono stare insieme. E non escluda una terza motivazione: quella religiosa. Anche se in tema di religione i terroristi islamici sono di un’ignoranza assoluta».

     

    É vero che lei e l’altro scrittore francese più importante, Houellebecq, siete amici?

    «Non so se siamo amici. Di sicuro c’è vera stima reciproca. Sono anche stato al suo matrimonio».

    E cos’avete fatto?

    «Abbiamo cantato tutto il tempo. C’era il karaoke. Insieme abbiamo cantato L’été indien di Joe Dassin. Ha iniziato lui, con Tous le garçons et les filles di Françoise Hardy».

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    Carrère e Houellebecq che cantano «Tous le garçons et les filles» è una notizia.

    «É una canzone bellissima».

     

    Ma la trama di «Soumission», il romanzo in cui Houellebecq immagina che un islamico diventi presidente della Francia, è impossibile.

    «La libertà di creazione artistica è sacra. E nulla è davvero impossibile. Come stiamo verificando in questi giorni in riva al Mare d’Azov».

    Se fosse vivo, dove sarebbe in questi giorni il protagonista di uno dei suoi libri più belli, Limonov?

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    «Limonov era un nazionalista russo. Sarebbe in Ucraina, lui ucraino, a combattere al fianco dell’esercito di Putin, maledicendo Putin».

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