Dagoreport
marta cartabia
Chi ha sfogliato oggi i quotidiani, ha avuto l'occasione di spiluccare le saporite anticipazioni sulla riforma della giustizia a cui alacremente lavora Marta Cartabia.
Sono praline regalate ai cronisti dall'entourage del ministro che, da abile donna di potere, non parla, non pontifica ma opera in silenzio: non ha mai pubblicamente criticato o cestinato la riforma di Bonafede ma la andrà a sconquassare per il 90%.
Per orientarsi nel dedalo del processo civile, penale e Csm e riformarli ex novo, Cartabia si è affidata al giurista Massimo Luciani, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico alla facoltà di Giurisprudenza all'università "La Sapienza" di Roma. Che la consegnerà entro fine maggio. Dopodiché inizieranno gli incontri preliminari della Cartabia con i responsabili giustizia dei vari partiti .
MASSIMO LUCIANI 1
Qualsiasi direzione prenda la riforma della Giustizia, dovrà arrivare a compimento entro il 30 giugno.
L'occhiuto controllo dell'Ue sul Recovery fund italiano, di cui la Giustizia è tassello fondamentale, impone una road map accelerata.
Il vero problema per il ministro Cartabia è l'assenza di un chiaro interlocutore del M5s, ormai un partito allo sfascio. Dalla palude grillina - resa fitta da beghe legali, possibili scissioni e progetti di riforma - sta emergendo una sola certezza: Conte non conta un cazzo.
L'Avvocato di Padre Pio è partito per suonare ed è finito suonato: la sua scalata al Movimento si è fermata prima di cominciare. Il suo nemico più intimo, anche se nascosto nelle retrovie, è il "coniglio mannaro" Luigi Di Maio, vero sabotatore dell'accordo Pd-M5s alle elezioni comunali.
goffredo bettini gianni letta giuseppe conte
Conte aveva garantito al suo fan numero uno, Goffredo Bettini, e a Enrichetto Letta di fermare la corsa di Virginia Raggi per dare il via libera alla candidatura a sindaco, a quel punto condivisa dai due partiti, di Nicola Zingaretti.
Senza questa garanzia, d'altronde, Letta non avrebbe spinto così tanto il governatore del Lazio ad accettare l'investitura.
Di Maio, invece, ha operato da "guastatore": ha appoggiato Virginia Raggi, che già aveva ottenuto la benedizione di Beppe Grillo, lasciando Conte col cerino acceso in mano a vagheggiare la fantomatica discesa in campo di Zingaretti. A quel punto, "Giuseppi" ormai panato e fritto ha dovuto rinculare, buttandosi tardivamente su "Virgy", sconfessando ancora una volta la sua leadership formato stracchino: moscia e spalmabile.
conte di maio
Non solo. Due giorni fa, Conte è stato impegnato in una conference-call via Zoom con i vertici del M5s di Torino (dove ha sempre rivolto lo sguardo, sognando di avere Chiara Appendino come sua "vice") per perorare l'accordo con il Pd anche sotto la Mole Antonelliana.
I suoi interlocutori l'hanno sfanculato rigettando la proposta ed evocando, a sostegno del vaffa, l'endorsemente di Di Maio alla Raggi: "Perché dovremmo appoggiare il Pd - è stato il senso del ragionamento - se a Roma andiamo con un nostro candidato? Facciamo lo stesso anche qui".
ENRICO LETTA GIUSEPPE CONTE
Il marasma interno al M5s costringe Conte a rimandare la sua discesa in campo e a rinviare l'ormai mitologico progetto di riforma delle macerie grilline: ha fatto sapere a Vito Crimi che non sarà pronto prima di un mese.
Lo schiavo di Casalino non aveva fatto i conti con la fronda di Di Maio, che sembrava oramai addomesticato al regno della Pochette dal volto umano. Luigino da Pomigliano è ancora convinto che sia meglio avere un Movimento coeso al 10% del pastrocchione contiano al 15. Senza contare che almeno un terzo dei parlamentari cinquestelle sono ancora fedeli a Di Maio, mentre un 20/25% sbanda dalle parti di Casaleggio-Di Battista.
conte zingaretti
L'ex bibitaro, che sarà anche naif ma non è fesso, ha capito di doversi legare mani e piedi al governo Draghi e spingere a testa bassa per il suo successo.
Se SuperMario va avanti fino al 2023, lui resta ministro degli Esteri (e non è poco), contando sul primo gruppo parlamentare, e rimanda a data da destinarsi le elezioni politiche che dovrebbero certificare l'ascesa di Conte e del suo partito. Non è un caso che Letta abbia ascoltato più volte Luigino.
Tra l'avvocato e l'ex bibitaro, nonostante le smancerie d'obbligo, pende una vecchia ruggine mai risolta, legata all'ambizione dell'ex legale dello studio Alpa.
Nel 2018 Di Maio scelse Conte come presidente del Consiglio in ragione della sua totale inadeguatezza politica: avrebbe dovuto fare da burattino-garante al governo Gialloverde e obbedire agli ordini. Poi, a partire dal Conte 2, insufflato dal canto della sirena Casalino, rinfrancato dai sondaggi (farlocchi) e sedotto dal potere, l'oscuro professore si è affrancato dal giogo e ha iniziato a far da sé, sfilando leadership e partito allo stesso Di Maio che l'aveva creato. (Stessa cosa è avvenuta con il Quirinale: negli ultimi sei mesi del Conte 2 non ha dato più retta ai "consigli" di Mattarella).
mario draghi luigi di maio 1
Lo scontro di potere nel saloon grillino sgonfia i piani di Enrichetto Letta che, da quando è diventato segretario del Pd, non ne ha imbroccata mezza (dall'assalto strumentale a Salvini fino alle battaglie identitarie e scaccia-voti su Ius soli, legge Zan e tweet pro Fedez, fino ai migranti).
Gli ex renziani della corrente "Base riformista" (Lotti, Guerini, Marcucci), che non vedono l'ora di fare le scarpe a Sotti-Letta, non aspettano che un primo inciampo (magari proprio un mega-flop Pd alle amministrative) per partire all'assalto e rispedirlo a Parigi.
Anche perché l'accordo con i Cinquestelle per ora è un buco nell'acqua, non solo a Torino e Roma (dove lo sfollagente Gualtieri correrà in tandem con Lady Franceschini, Michela De Biase, come vicesindaco). Anche a Napoli il candidato in pectore Roberto Fico (che avrebbe dovuto lasciare la poltrona di presidente della Camera a Su-Dario Franceschini) ha riposto nel cassetto l'idea di tornare nella città del golfo. E il Pd ha in mente di candidare Gaetano Manfredi, l'ex ministro dell'università e della ricerca del Governo Conte II.
bertolaso
E il centrodestra? Meloni e Salvini non si parlano da tempo e mercoledì manderanno avanti i luogotenenti per stabilire chi mandare in prima linea. Bertolaso, che i sondaggi riservati danno sicuro vincitore, per accettare la candidatura al Campidoglio, chiede una lettera scritta (quindi un impegno formale) di tutti i leader dei partiti della coalizione di centrodestra.
Ma ha già fatto capire di non volere ingerenze sulla scelta della giunta. Come previsto dalla legge, è il sindaco a dover scegliere i suoi assessori e non i suoi dante-causa. Per la serie: ci metto i miei fedelissimi non i vostri amichetti. Coalizione avvisata, mezza salvata? Ah, saperlo….
salvini meloni franceschini giachetti lotti guerini boschi