AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE DAI LORO…
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” - Estratti
«La prima volta a otto anni, sugli sci da discesa: inverno del 1957, mi sembra. Era una gara tra le scuole elementari della Val Badia: noi di La Villa contro Pedraces, Corvara e San Cassiano. Mi consegnarono una coppa luccicante, capii subito che dello sport mi piacevano due cose: fare di testa mia e vincere».
Come ogni giorno, Maria Canins è rientrata da una lunga passeggiata sulle montagne della sua infanzia, lungo il sentiero del Gardenacia, il rifugio che suo zio costruì nel 1935 alla base del Sassongher.
Classificare questa donna di 74 anni, magra come un chiodo e dagli occhi meravigliosamente azzurri, è difficilissimo. Dal 1969, Maria sugli sci di fondo ha vinto 15 titoli tricolori, dieci edizioni consecutive della Marcialonga, una della leggendaria Vasaloppet.
Nel ciclismo ha conquistato due Tour de France, un Giro d’Italia, un oro mondiale, dieci titoli nazionali e partecipato a due Olimpiadi. Ha avuto curiosità agonistica smisurata: nel 1982 è stata campionessa di fondo, di ciclismo su strada, corsa in montagna, mountain bike e skiroll. Da otto anni (Bruno Bonaldi, marito e mentore è scomparso in un incidente di bicicletta) Maria vive sola nella sua casetta con orto di La Villa, in Val Badia.
Pioniera dello sport femminile italiano le piace, Maria?
«Sì, non per le vittorie ma perché ho convinto tante donne a fregarsene dai pregiudizi maschili in tempi in cui abbondavano. Non eravamo adatte a sport faticosi come lo sci di fondo o le maratone, non eravamo belle in bici.
Ridicole in pantaloncini e maglietta, non avevamo gambe abbastanza potenti per scalare le montagne. Da ragazzina vivevo i pregiudizi comprensibili dei valligiani: lo sport era considerato una perdita di tempo perché le tue braccia servivano in malga o nei campi. Da adulta ho capito che esistevano anche fuori ed erano odiosi».
Adesso sono superati?
«Sì. Le donne italiane si sono rese conto di essere bellissime in pantaloncini da ciclista e di poter competere sulle stesse distanze degli uomini negli sport di resistenza e magari di batterli».
Lei è mai stata discriminata?
«Non avrebbero osato: guardata con sufficienza sì, però, anche da molti colleghi maschi. Uno che mi ha sempre rispettata è Moser, nato come me in una famiglia di montanari dove la donna era al centro di tutto. Quando uscivamo in bicicletta Francesco cercava sempre di staccarmi e guardava con la coda dell’occhio se c’era riuscito».
Ci riusciva?
«No».
È stata la prima italiana a dominare nello sci di fondo.
«Sono nata sugli sci quando non si usavano le motoslitte e le piste dovevamo batterle da sole. Ero leggera, forte in salita e con l’aiuto di mio marito sapevo preparare le scioline. Si guadagnava niente ma viaggiavo e vedevo il mondo. Ho vinto la Vasaloppet, la maratona più famosa del mondo senza quasi accorgermene. Alla fine dei 90 chilometri mi premiarono con una falciatrice ma siccome non ci stava nel bagagliaio dell’aereo la barattai con il set di coltelli svedesi del vincitore maschile. Bellissimi».
Appena la neve si scioglieva lei saliva in bici.
«In bici ero un’anarchica assoluta. Quando vedo le corse di oggi, i ciclisti che prendono ordini dalle radioline mi sento male. Al Tour del 1996 la tappa finiva sul Puy de Dôme, una delle salite più famose di Francia. C’era in fuga una mia compagna, in teoria avrei dovuto rimanere buona buona in gruppo. Ho resistito cinque minuti e poi sono andata a prenderla e a vincere. La squadra avrebbe dovuto cacciarmi!».
Chi poteva cacciare una che ha conquistato due Tour con venti minuti di vantaggio sulla seconda?
«Era un Tour più bello di quello di oggi. Facevamo le stesse tappe dei maschi, solo più corte, arrivando prima di loro al traguardo con lo stesso pubblico, le stesse feste. Oggi le ragazze corrono una settimana dopo, quando il pubblico in tv è già sazio di corse di biciclette».
È vero che suo marito disegnava sull’asfalto le traiettorie per farle impostare bene i tornanti in discesa?
«È una balla inventata da un giornalista che incontrò il Bruno con in mano un secchio di vernice sulla discesa del Tourmalet. Lui l’aveva percorsa a visibilità quasi zero e mise delle frecce perché non ci schiantassimo se la nebbia non si alzava. A 14 anni giravo sui passi dolomitici con la vespetta di mio padre, si figuri se sulle discese potevo avere problemi».
Maria, lei in bici mostrava gambe e cosce che venivano ammirate e invidiate in tutto il mondo.
«Ne ero orgogliosa, ma non per l’estetica. Perché, vede, i miei muscoli non li ho mai costruiti in palestra, con gli integratori o chissà cos’altro ma camminando e arrampicandomi qui in Badia. Se lei guarda le mie foto di adesso, se ne accorge: le mie gambe sono bellissime come 40 anni fa perché ancora oggi quando vedo una strada che sale o scende io vado sempre verso la montagna».
(…)
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