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    CENTINAIA DI PICCOLI OSPEDALI CHIUSI PER L’AUSTERITY SANITARIA: SARDEGNA E SICILIA SI CONTENDONO IL PRIMATO DELLE CHIUSURE - AL MINISTERO DELLA SALUTE PIOGGIA DI RICORSI CONTRO I TAGLI DELLE STRUTTURE CON MENO DI 120 POSTI LETTO MA LE REGIONI INSISTONO: "I CENTRI TROPPO PICCOLI NON RIESCONO A GARANTIRE LA QUALITÀ NECESSARIA" – MA ORA PER PARTORIRE SERVONO 90 MINUTI DI MACCHINA…


     
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    Giacomo Galeazzi per La Stampa

     

    Sono la Sardegna e la Sicilia a contendersi il primato delle chiusure.

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    Napoli, Milano e Torino sono le province dove l' austerity sanitaria ha tagliato più ospedali con meno di 120 posti e punti nascita con meno di 500 parti l' anno. Una situazione che aumenta la pressione sulle strutture maggiori e che può mettere a rischio la salute di chi si trova lontano dai centri di cura.

     

    Un mese fa un uomo di 47 anni si è sentito male in Molise, a Larino, uno dei Comuni rimasti senza un punto sanitario, ed è stato trasferito a Termoli ma la tac non funzionava. Da qui la corsa in Puglia, dove è arrivato troppo tardi, già in morte cerebrale. Da Nord a Sud si moltiplicano disagi e proteste. Due terzi degli italiani sono contrari ai tagli. Il 66% si oppone alla chiusura dei piccoli ospedali, mentre il 34% è favorevole perché li considera poco attrezzati o poco frequentati.

     

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    Pioggia di ricorsi Il ministero della Salute dichiara alla Stampa di non disporre di «dati consolidati sul numero degli ospedali attivi e chiusi: il monitoraggio delle programmazioni regionali non fa emergere un quadro sicuro sulle chiusure dei piccoli ospedali, in presenza di diversi procedimenti giuridico-amministrativi».

     

    Antonio Saitta, assessore alla Sanità del Piemonte e coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni, difende «un approccio nuovo, al quale dobbiamo abituare la popolazione, ma anche i medici di famiglia, fondamentale anello di congiunzione». E assicura: «Le Regioni attuano il Patto della salute firmato col ministero per la sicurezza dei pazienti e i dati scientifici dimostrano che numeri e tassi di interventi troppo ridotti in alcune discipline mediche sono pericolosi».

     

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    Perciò «la politica di ridurre i piccoli ospedali dove un tempo si faceva tutto non nasce da calcoli economici, ma dalla necessità di garantire più salute». E così in Piemonte gli ospedali piccoli sono stati trasformati in presidi territoriali e sono state aperte nuove Case della Salute per fornire assistenza territoriale senza penalizzare troppo chi vive in zone periferiche o montane. Una politica sanitaria basata sull' alta percentuale di anziani e cronici.

     

    Per le urgenze nelle zone marginali ci si affida agli interventi del 118 con i voli notturni dell' elisoccorso, mentre alla chiusura dei piccoli ospedali corrispondono più investimenti per strutture specializzate, come i Parchi della salute, della ricerca e dell' innovazione a Torino e Novara . È la riforma del sistema di strutture ospedaliere.

     

    «Non è un fenomeno solo italiano - spiega Francesco Moscone, economista della sanità, docente alla Brunel University di Londra - . In 15 anni in Europa c' è stata una diminuzione degli ospedali del 9,4%. Si contano in media nell' Ue 2,9 nosocomi ogni 100 mila abitanti, con un valore che oscilla tra l' 1,4 della Slovenia e il 4,9 della Francia».

     

    In Europa sono notevolmente calati anche i centri per malati acuti (ossia la metà degli ospedali): in Germania ne sono stati chiusi 357, in Francia 193, in Italia 170, in Svizzera 122.

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    La scure dei rimborsi «I sistemi sanitari come quello inglese o lombardo, nei quali i rimborsi sono decisi dal sistema sanitario nazionale o regionale, incoraggiano la rivalità tra gli ospedali nella qualità dei servizi erogati, con l' effetto di migliorare le condizioni di salute dei cittadini», osserva Moscone.

     

    Ridurre gli ospedali in un territorio, però, non equivale sempre alla riduzione della spesa sanitaria complessiva. Chiudere le strutture non aiuta necessariamente a contenere i bilanci delle regioni del Mezzogiorno perché la mobilità dei malati erode la maggior parte delle finanze locali. Per esempio, l' Abruzzo rimborsa alla Lombardia le cure sanitarie dei pazienti abruzzesi che si fanno curare a Milano.

    Il caso Basilicata «Cambia la localizzazione delle strutture, non cambiano i servizi», recita lo slogan del riassetto del servizio sanitario lucano.

     

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    Detto così sembra niente, ma in un fazzoletto di terra che è un groviglio montuoso, dove per arrivare da un paese all' altro e percorrere 15 chilometri di curve servono 40 minuti, trasferire interi reparti ospedalieri non è come farlo nella pianeggiante Puglia. E così una puerpera di San Costantino Albanese o di Roccanova deve affrontare un' ora e mezzo di macchina rischiando di partorire lungo il tragitto. Fino alla chiusura dell' ospedale di Chiaromonte, poteva essere assistita dopo aver percorso 40 chilometri in mezz' ora d' auto. Inutile pensare al bus (collegamenti all' osso e tempi infiniti). E i treni qui non sono mai esistiti. In ambulanza la partoriente deve raggiungere Policoro (Asl di Matera, un' altra provincia) o Lagonegro (l' ospedale di riferimento).

     

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    Risultato della riforma? Raddoppiati costi e chilometri (in media 80) e almeno un' ora e un quarto di strada per mettere al mondo un figlio. «Il paziente deve recarsi nell' ospedale più idoneo e non nel più vicino», si legge nel piano sanitario del Ssr. E così al San Carlo di Potenza sono stati accorpati gli ospedali di Melfi, Villa d' Agri e Lagonegro.

    Al Santa Maria delle Grazie di Matera il nosocomio di Policoro.

     

    Ecco la seconda vita degli ospedali riconvertiti: Stigliano (hospice e lungodegenza), Tricarico (lungodegenza e riabilitazione), Tinchi (dialisi e riabilitazione), Venosa (Alzheimer e oculistica), Chiaromonte (disturbi alimentari e alcolismo, diagnosi precoce autismo); Lauria (dialisi, lungodegenza, hospice pediatrico), Maratea (Alzheimer e casa di riposo). L' austerity pesa sui cittadini che, in numero crescente, per curarsi emigrano. Secondo l' indagine della Fondazione Gimbe,la Basilicata è al penultimo posto nel saldo della migrazione sanitaria in rapporto al numero di residenti. Peggio solo la Calabria.

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