Carlo Baroni per il “Corriere della Sera”
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Quella volta che tirò giù San Siro. E quell' altra che imbavagliò Rombo di Tuono. Sempre lui, solo lui. Mauro Bellugi, professione stopper. Ma non come quelli di una volta. Uno con i piedi che il pallone «restava incollato». Ora le conseguenze del Covid lo hanno lasciato privo delle gambe. Sono due mesi che Bellugi è in ospedale, al Niguarda di Milano. Senza piangersi addosso.
Con la forza e il sorriso di quando giocava un derby. Il compagno di squadra che tutti vorrebbero avere. Una simpatia tracimata anche negli studi televisivi, a fine carriera. L' opinionista che faceva salire lo share. Urticante con stile. Proprio come quando giocava. La moglie Lory racconta che il suo Mauro resta ottimista. «La strada è lunga ma piano piano ne verrà fuori. Il virus gli ha procurato delle ischemie.
L' unica soluzione era amputare le gambe». Soffriva da qualche tempo. Ai funerali di Mario Corso si era presentato con le stampelle. Quando giocava gli infortuni lo avevano tartassato. Mai piegato, però.
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Adesso, tanto per dire chi è, guarda già avanti. Pochi giorni dopo l' intervento cercava delle protesi su Internet. «Prenderò quelle di Pistorius» garantiva. E scherzava: «Mi hanno tolto anche la gamba con cui ho segnato al Borussia». Un gol solo in una carriera da cento battaglie, ma indimenticabile. Una rete di quelle che restano nelle teche e nei ricordi. Da fuori area come Pelè e Maradona.
Un tiro nell' angolo alto dove nessun portiere può arrivare.
Era il 3 novembre 1971. Una delle notti magiche di San Siro. Per cancellare l' onta di un 7-1 cassata dagli archivi ma rimasto dentro la pelle di ogni interista.
Mauro veniva dal vivaio.
Quello buono dell' Inter. La generazione dei Bordon e degli Oriali. Toscano di Buonconvento, classe 1950 all' anagrafe, classe ottima in campo, classe infinita negli spogliatoi. «Come si faceva a non andare d' accordo con lui?» ricorda Carletto Muraro, il Jair bianco. «L' ho conosciuto quando Mauro stava finendo con l' Inter e io cominciavo. In panchina Helenio Herrera, il ritorno del Mago. La prima volta insieme a San Siro.
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Contro il Cagliari. E Mauro a mettere la museruola a Gigi Riva. Come giocatore non gli mancava niente. Gran difensore. E sempre pronto alla pacca sulla spalla al compagno che sbagliava».
Inter ma anche Bologna e Napoli. E infine Pistoiese. E la nazionale. Ai Mondiali argentini del 1978, una squadra forse più bella di quella iridata di quattro anni dopo. Metà bianconera e metà granata. Più che l' Italia era Torojuve. Con un' eccezione: Mauro Bellugi. «Dicevano, lo so, che Bellugi ha una gamba più corta, che era una pazzia farmi giocare in nazionale, che Bearzot si era... innamorato di me.
Ho letto, ho ascoltato, ho taciuto. Io preferisco rispondere sul campo. Il calcio è il mio mestiere: non l' ho mai tradito, non lo tradirò mai. Bellugi è un uomo». Del resto l' aveva dimostrato a Wembley nel 1973, la prima vittoria degli azzurri nello stadio-tempio degli inglesi. L' assedio dei leoni bianchi. Incessante. Spaventoso. Bellugi con le basette lunghe che si usavano nei fantastici anni Settanta a rispondere colpo su colpo.
Mauro Bellugi
Che gli italiani non si facevano spaventare dall' orda britannica.
Un giocatore di classe quando agli stopper era richiesto solo di spazzare l' area e non azzardarsi a tenere la palla più di qualche secondo. Corretto ma se c' era da picchiare non si tirava indietro. Con il tedesco Klaus Fischer, per esempio, ancora ai Mondiali del '78: «Credeva di intimidirmi entrando a catapulta, scalciando, colpendomi come e non appena poteva. Lo hai visto come è finita: in una entrata volante, ho allargato il gomito, c' è finito contro con il viso, è piombato il medico a cucirgli il labbro che penzolava sul mento, lì sul campo di gioco... io non cerco la rissa, ma se mi cercano mi trovano sempre».
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Mauro Bellugi che le partite non finiscono mai. Neanche questa che sta giocando.
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