1. L'ARTICOLO DI KAMEL DAOUD CHE HA SCATENATO I MUSULMANI
2. “IO, SOTTO ACCUSA DOPO I FATTI DI COLONIA PER QUESTO ORA DICO ADDIO AL GIORNALISMO”
Kamel Daoud abbandona il giornalismo. Pubblichiamo la lettera al Quotidien d’Oran, con cui il giornalista algerino risponde alle accuse piovutegli addosso dal mondo accademico occidentale. Tutto inizia dopo la pubblicazione a gennaio di un articolo su Repubblica, poi ripreso da Le Monde, in cui Daoud analizzava quanto accaduto la notte di Capodanno a Colonia, denunciando la “miseria sessuale” del “mondo di Allah”, incapace di accettare la libertà della donna.
kamel daoud
Daoud era poi tornato sugli stessi temi a febbraio sul New York Times. Tanto è bastato a far esplodere il caso. In una lettera a più firme su Le Monde un gruppo di accademici gli ha rimproverato di usare clichés orientalisti e di contribuire a “nutrire le fantasie islamofobiche” di europei e americani. La risposta dell’autore de Il caso Meursault è un addio alla sua professione di giornalista: «Cari amici, mi ritiro». Per Daoud meglio dedicarsi solo alla letteratura.
Lettera di Kamel Daoud pubblicata da “la Repubblica”
( traduzione di Fabio Galimberti)
Caro amico, ho letto con attenzione la tua lettera. Sono rimasto colpito dalla sua generosità e lucidità. Curiosamente, è venuta a confortare una decisione che avevo già preso in questi giorni, e con gli stessi argomenti.
Tuttavia, vorrei rispondere ancora. Scrivo da tempo con lo stesso spirito, che non si cura delle opinioni altrui quando sono predominanti. Mi ha regalato una libertà di tono, uno stile, forse, ma anche una libertà che era insolenza e irresponsabilità o audacia. O anche ingenuità. Ad alcuni piaceva, altri non riuscivano ad accettarla. Ho stuzzicato le radicalità e ho cercato di difendere la mia libertà di fronte a cliché che mi facevano orrore. Ho cercato anche di pensare. Attraverso l’articolo di giornale o la letteratura.
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Non solo perché volevo avere successo, ma anche perché avevo il terrore di vivere una vita senza senso. Il giornalismo in Algeria, durante gli anni duri, mi aveva garantito di vivere la metafora dello scritto, il mito dell’esperienza. E dunque ho scritto spesso, troppo, con furore, collera e divertimento. Ho detto quello che pensavo sulla sorte delle donne nel nostro Paese, sulla libertà, sulla religione e su altre grandi questioni che possono condurci alla consapevolezza o all’abdicazione e all’integralismo. A seconda dei nostri scopi nella vita.
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Non fosse che oggi, con il successo mediatico, ho finito per capire due o tre cose. Innanzitutto che viviamo ormai in un’epoca in cui se non sei da un lato, sei dall’altro: del testo su Colonia, una parte, quella sulla donna, l’avevo scritta anni fa. All’epoca non suscitò quasi nessuna reazione. Oggi l’epoca è cambiata: l’irritazione spinge a interpretare, e l’interpretazione spinge al processo. Avevo scritto questo articolo e quello del New York Times a inizio gennaio: la loro successione nel tempo dunque è un caso, non un accanimento da parte mia. Avevo scritto, spinto dalla vergogna e dalla collera contro la mia gente, e perché vivo in questo Paese, in questa terra.
germania sincaco colonia, violenze a donne 'inaudite' 83
Avevo esposto il mio pensiero e la mia analisi su un aspetto che non può essere occultato sotto il pretesto della “carità culturale”. Sono scrittore e non scrivo saggi universitari. È anche un’emozione. Che degli universitari oggi lancino una petizione contro di me per quel testo lo trovo immorale, perché non vivono nella mia carne o nella mia terra, e trovo illegittimo, se non scandaloso, che certi mi comminino una sentenza di islamofobia dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dei suoi caffè.
capodanno a colonia
Il tutto servito sotto forma di processo staliniano e con il pregiudizio dell’esperto: faccio la paternale a un indigeno perché parlo meglio degli interessi degli altri indigeni e post- decolonizzati. E in nome di entrambi, ma con il mio nome. Per me è un atteggiamento intollerabile. Continuo a pensare che sia immorale offrirmi in pasto all’odio locale con il verdetto di islamofobia, che oggi serve anche da inquisizione. Penso che sia vergognoso accusarmi di questo tenendosi bene a distanza dal quotidiano mio e della mia gente.
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L’islam è una bella religione a seconda dell’uomo che la indossa, ma a me piace che le religioni siano un cammino verso un dio, che risuonino dei passi di un uomo in marcia. Gli imboscati che hanno promosso la petizione contro di me non misurano la conseguenza delle loro azioni e del tribunale sulla vita altrui.
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Caro amico, ho capito anche che l’epoca è dura. Come un tempo lo scrittore che veniva dal freddo, così oggi lo scrittore che viene dal mondo cosiddetto arabo è preso in trappola, intimidito, spinto via, cacciato. La minaccia della sovrainterpretazione incombe su di lui e i media lo tormentano per confermare chi una visione, chi un rifiuto e una negazione. La sorte della donna è legata al mio futuro, al futuro della mia gente. Il desiderio è malato, nelle nostre terre, e il corpo è accerchiato. Non possiamo negarlo e lo devo dire e denunciare. Ma improvvisamente mi ritrovo responsabile di cosa leggeranno a seconda delle varie terre e arie.
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Denunciare la teocrazia diffusa da noi altrove diventa una tesi da islamofobi. È colpa mia? In parte sì. Ma è anche colpa della nostra epoca, il suo mal du siècle. È quanto è successo con l’editoriale su Colonia. Me ne faccio carico, ma mi sento sconsolato per l’uso che se ne può fare come negazione e rifiuto di umanità dell’Altro. Lo scrittore venuto dalle terre di Allah si trova oggi al centro di sollecitazioni mediatiche intollerabili. Non posso farci niente, ma posso sottrarmici: con la prudenza, come credevo prima, ma anche con il silenzio, come scelgo di fare oggi.
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E allora mi occuperò di letteratura. Fra non molto abbandonerò il giornalismo. Mi dedicherò ad ascoltare gli alberi o i cuori. A leggere. A ricreare dentro di me la fiducia e la tranquillità. A esplorare. Non ad abdicare, ma ad andare oltre il gioco delle mode e dei media. Mi riprometto di scavare e non declamare.