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Milena Gabanelli e Gino Pagliuca per www.corriere.it
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Un Paese normale deve conoscere la fotografia reale di tutto il patrimonio immobiliare presente sul suo territorio, e l’esatta destinazione d’uso dei terreni. Si chiama «aggiornamento del Catasto» e serve a classificare e a determinare i valori sulla cui base si pagano le imposte sugli immobili: Imu, tassa di registro quando si compra da un privato, tassa di successione e donazione, oltre a contribuire al calcolo dell’Isee per chi chiede contributi e agevolazioni pubbliche.
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Allora perché su un tema così scontato si accapigliano da decenni tutti i partiti? Perché modificare il valore del singolo immobile significa anche modificare l’importo delle imposte che il suo possessore deve eventualmente pagare.
30 anni di vuoto
Il Catasto attribuisce a ogni immobile, sulla base delle sue caratteristiche, una «rendita». I valori di base sono stati definiti per l’ultima volta nel 1989, in previsione dell’arrivo dell’Ici, ed è evidente che numeri scritti oltre trent’anni fa non hanno alcuna attinenza con i valori di mercato attuali, anche perché il sistema si basa su una suddivisione del territorio, soprattutto nelle grandi città, del tutto incongrua.
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Per gli immobili residenziali c’è poi un ulteriore problema: la superficie non è misurata in metri quadrati come nella prassi commerciale ma in «vani catastali», di dimensione variabile.
Le abitazioni sono suddivise in categorie e classi che riflettono ancora la situazione di quando la rendita è stata attribuita senza tenere conto di eventuali migliorie avvenute nel tempo. Basti pensare che 3,5 milioni di edifici residenziali tuttora esistenti sono stati costruiti prima del 1940 e la maggior parte ha subito importanti opere di riqualificazione.
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Case fantasma e abusive
Che cosa prevede la riforma? Tre cose: la prima è identificare gli immobili fantasma. L’ultima ricognizione generale è stata fatta alla fine del 2011 e indicava in oltre due milioni le porzioni di territorio (le «particelle») che non trovavano riscontro nelle banche dati, e oltre 1,1 milioni di casi presentavano anche edificazioni da accatastare.
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Una parte è stata sanata portando alle casse del fisco un maggiore gettito per 356 milioni all’anno, ma ancora l’ultima edizione disponibile delle statistiche catastali (2021) delle Entrate fa riferimento a 1,2 milioni di immobili fantasma.
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Anche perché nel frattempo l’abusivismo sulle nuove edificazioni non si è fermato: secondo il rapporto Sdgs (Sustainable Developments Goals) redatto dall’Istat nel 2020 su 100 case nuove, quelle abusive sono 6,1 al Nord, 17,8 al Centro, 45,6 al Sud.
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Nella media nazionale rappresentano il 17,7%. Senza contare i terreni edificabili classificati come agricoli. La nuova opera di ricognizione si farà servendosi di rilievi aerofotografici o anche di sistemi come google maps, ma per la definizione precisa delle caratteristiche dei terreni incolti è necessaria la collaborazione dei Comuni, perché un terreno vuoto è edificabile o agricolo a seconda di che cosa stabiliscono i piani urbanistici comunali.
Ruderi diventati case di lusso
Il secondo aspetto della riforma è riclassificare sin da subito e con le regole attuali gli immobili che hanno cambiato le loro caratteristiche. Negli scorsi anni si è già operato nei centri storici di alcune città, soprattutto a Roma e a Milano, ma molto si può fare semplicemente ricorrendo ai dati che le Entrate hanno in casa.
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Chi compie lavori di ristrutturazione e chiede le agevolazioni dà al Fisco tutte le informazioni utili perché gli riclassifichi l’immobile. È evidente che chi sta facendo i lavori con il Superbonus (pagati interamente dallo Stato) vedrà passare la casa in una fascia fiscale più alta. Dovrà fare un salto «di classe» anche chi possiede immobili prestigiosi, ma non classificati in una delle tre categorie catastali (A/1, A/8 e A/9) considerate di lusso.
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Per esempio il rudere che negli ultimi 30 anni è diventato villa con piscina. Oggi sono solo 70mila gli immobili di lusso, lo 0,2% del totale, una percentuale poco credibile. Avere una casa di prestigio significa pagare l’Imu anche se è prima casa, e quando si compra pagare un’imposta del 9% invece del 2.
L’emersione delle case non accatastate, di quelle che se pur censite non pagano il dovuto, e la riclassificazione degli immobili allo stato attuale porteranno nuovi introiti all’Erario e alle casse comunali.
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Oggi il prelievo sugli immobili è stimabile in 41 miliardi di euro. La promessa è che dove emergerà più sommerso ne beneficerà la comunità con una riduzione delle imposte, in particolare dell’Imu che viene decisa a livello locale. Se il Comune incassa di più abbassa a tutti l’aliquota.
Lo scontro sul valore di mercato
Il terzo aspetto della riforma, presente nel comma 2 dell’articolo 6 della legge delega di riforma fiscale, riguarda l’aggiornamento delle rendite ai valori reali. In questi tre decenni ci sono quartieri che si sono degradati e altri che invece hanno avuto uno sviluppo perché, ad esempio, è arrivata la linea della metropolitana.
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Vuol dire che alcuni immobili hanno perso valore e altri lo hanno aumentato. Ma come si calcolano i valori? Identificando i valori delle zone in cui sono suddivisi i territori urbani, tenendo conto delle statistiche sui valori immobiliari di tutti i Comuni italiani che l’Agenzia delle Entrate rende pubbliche ogni sei mesi, e sull’elaborazione dei dati ricavabili dai rogiti.
Questo consentirà di avere il quadro veritiero della situazione, ma non inciderà sulle imposte, perché la riforma prevede già in origine che fino al 2026 si continuerà a pagare sulla base delle vecchie rendite, dopo si vedrà. Se il senso di tutta questa battaglia politica era quello di far sparire dal testo della legge le parole «valore di mercato», è una modifica di forma ma di poca sostanza.
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Chi vince e chi perde
Nel 2021 il Corriere ha messo a confronto il prezzo medio a metro quadrato di vendita rilevato dai rogiti nel 2020 e il valore medio delle rendite catastali: la differenza tra prezzo di mercato e valore fiscale a Milano era del 174%, a Roma del 56%, a Napoli del 108%, e a Torino del 46%.
Se però si guarda all’interno delle città si scopre che fra centro e periferia le cose cambiano. A Milano, ad esempio, una seconda casa in piazza Libia che oggi per i dati delle Entrate vale in media 388 mila euro, paga su un valore fiscale di 244 mila.
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Applicando l’aliquota sul valore di mercato l’Imu costerebbe 1.550 euro in più; a Quarto Oggiaro invece chi ha comprato una casa una decina di anni fa ha una rendita catastale più alta del valore di mercato e risparmierebbe 330 euro.
A Torino: nella centrale via Po una casa che per il Fisco oggi vale 183 mila euro e per il mercato 213 mila pagherebbe 342 euro in più, al Lingotto il proprietario di una casa seminuova da 155 mila euro per il mercato e 174 mila per il fisco, risparmierebbe 216 euro.
Cosa cambia?
A conti fatti per chi possiede solo una prima casa non di lusso (sono 19,5 milioni) non cambia nulla perché non pagava l’Imu prima e non la paga ora. Per i proprietari di seconde case e immobili commerciali, resta tutto inalterato fino al 2026. Pertanto chi dovrebbe pagare di meno non risparmierà un centesimo, chi dovrebbe pagare di più, perché ha la seconda casa o un negozio a Brera o Piazza Navona, non sborserà un euro in più.
In sostanza, adeguare le rendite in base ai valori reali non ce lo chiede solo l’Europa, ma anche il buon senso. Quanto far pagare invece è una decisione politica. In Francia l’imposta ha come imponibile il 50% del valore di locazione registrato al catasto, e viene aggiornato ogni due anni. In Spagna la situazione è simile alla nostra, con valori catastali non sempre aggiornati.
Nel Regno Unito le imposte si pagano sul valore di mercato al momento del calcolo. In Germania il valore imponibile dipende da una radiografia completa dell’immobile, incluso quello dell’affitto ricavabile. Il nuovo criterio, basato sui dati al 1 gennaio di quest’anno, entrerà in vigore nel 2025.