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    CIAK! LA VITA DA CINEMA DI MASSIMO FERRERO IN ARTE VIPERETTA, ARRESTATO OGGI PER BANCAROTTA: "IN CARCERE MINORILE MI CHIAMAVANO 'ER GATTO', MA SUL SET UN UOMO MI MISE UNA MANO SUL CULO. NON CI HO VISTO PIÙ. SOLO CHE PIÙ JE MENAVO, PIÙ JE PIACEVA. MI DICEVA 'BRAVO, SEI UNA VIPERA, BRAVO'" - MONICA VITTI FU LA PRIMA A CHIAMARMI "VIPERETTA". AVEVA RAGIONE… - E POI FIDEL CASTRO CHE LO ACCOLSE A CUBA, IL GIOCO DELLA MONETINA DI TINTO BRASS, LA SAMP E LA PROPOSTA DI CANDIDARSI A SINDACO DI ROMA...


     
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    Enrico Sisti per “la Repubblica” pubblicato su Dagospia il 4 maggio 2020

     

     

     

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    «Non dico che ce la dovevamo aspettare, questa roba orrenda, ma forse potevamo presentarci al virus un po' più preparati, come individui, come società. Adesso temo la bancarotta o l' oblio». Massimo Ferrero, 68 anni, non è soltanto il presidente della Sampdoria e un impresario cinematografico. È tante cose. È un lockdown vissuto in campagna ma con l' eterna nostalgia di Roma. E la sua Roma è un meccanismo a orologeria che pare fatto apposta per rinforzare legami ancestrali. È pallone, certo, ma anche amori, strada, anni vissuti in bianco e nero senza una lira in tasca. Per parlare con lui è necessario mettere insieme i pezzi di un mosaico.

     

     

     

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    Ed è veramente come fare un film: tanti brandelli di Massimo sparsi qua e là, miriadi di interessi e di iniziative, rischi, accuse, personali e pubbliche, sempre al limite, distribuite negli anni della giovinezza e della maturità. Riuniti e incollati su un solo volto, questi brandelli diventano un prodotto finito: bello, verace, traboccante di verità così come di amarezze, travestite magari con un sorriso o mescolate, se viene, a una battuta. Massimo Ferrero è anche il padre di cinque figli (la più grande ha quasi 50 anni). Massimo Ferrero è quello che non ti aspetti, è il Viperetta dotato del suo antidoto: «E sono romanista da prima che nascessi».

     

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    Per ottenere il mosaico di cui sopra bisogna andare a cercare Massimo a casa, una casa nascosta all' interno di un grande cortile «che non mi sono mai sognato di acquistare, perché in fondo mi è rimasta l' anima del nomade, anche se poi vivo qui da trent' anni». Le case le ha comprate a tutta la sua numerosa famiglia, assicurando certezze da «nonno rock». Le finestre danno su un ampio spazio alle spalle di Trinità dei Monti, circondato dai profili degli altri interni, lontano dalla strada. La porta si apre dopo almeno cinque rampe di scalini con cui si va su e giù per il condominio, disegnato proprio come i condomini di una volta, appartamenti che spuntano qua e là, apparentemente senza un criterio.

     

    massimo ferrero viperetta massimo ferrero viperetta

     

    Invece in quella geometria si percepiscono forti i profumi dell' urbanistica del Tridente.

    Roma che sembrava anche calcisticamente nel suo destino «Ma poi non è successo. Ho sognato di rilevare la società, è vero, ma in un giorno lontano».

     

     

     

    E la città della sua infanzia?

    «Testaccio. Da dove del resto proviene anche Claudio Ranieri, il mio attuale tecnico alla Sampdoria. Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva. Eravamo poverissimi.

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    Si faticava a finire la giornata. I maglioncini duravano per generazioni. Le toppe invecchiavano sui gomiti. I valori erano traguardi veri. Aridatece i valori! Levateje i telefonini! Mio padre diceva: discoremo. Parlatevi ragazzi! Noi mangiavamo la frutta che scartavano ai mercati generali di Via Ostiense, c' è una bella differenza».

     

     

     

    Come si faceva all' amore?

    «Allora funzionava così: che non sapevi quando avresti dato o rimediato un bacetto. Non era come sarebbe stato poi, che la ragazze, scusate la franchezza, se la svitavano e te la tiravano addosso. Per incontrare le donne dovevi vivere in un' altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno».

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    E poi finì pure dentro, per amore

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    «Più che altro ho rischiato la vita mettendomi a cavalcioni sulla balaustra del terrazzo condominiale, lì m' incontravo con Rita, ci nascondevamo tra le lenzuola stese. Un giorno scappai in vespa perché ci avevano trovato e volevo evitare una guardia. Quando tornai indietro la guardia era ancora lì e così gli detti un buffetto sul cappello che volò via. Cominciò a rincorrermi in macchina. Il guaio è che la guardia era il padre di Rita. Finii la benzina e mi arrestarono per oltraggio. Ho passato sei mesi nel carcere minorile di Porta Portese, al San Michele».

     

     

     

    E com' era la vita da rinchuisi, rispetto a quella fuori?

    «Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio. E se non avessi già preso così tanti schiaffi da mio padre e da mia madre, sarei entrato tondo e uscito quadrato. Però lì dentro, a modo mio, mi sono fatto una cultura. Non sapevo niente del mondo, per carità, però aveva imparato a memoria la civiltà dei ragazzi di strada che ero costretto a frequentare, al punto da desiderare quasi di sentirmi uno di loro. Era gente che sparava certe assurdità. Però forse qualcuna era pure vera. Di sicuro entravano, uscivano, entravano di nuovo. Non avevano altra scelta, non avevano altra vita».

    massimo ferrero si siede sulla scalinata di piazza di spagna 2 massimo ferrero si siede sulla scalinata di piazza di spagna 2

     

    Ma lei invece come si definirebbe?

    «Un artista di strada, uno che va in giro con lo strumento, pane amore fantasia, che recita, balla. Ero nato per quello, ho sempre avuto i tempi della commedia».

     

    Cinema, cioè paradiso...

    «Sono entrato a Cinecittà nascosto nella casse dei panni della lavanderia, dopo essermi attaccato al tram a San Giovanni. I film li andavano spesso a girare a Frascati.

    Viperetta Viperetta

     

    Giuliano Gemma faceva l' acrobata. Io gli andavo dietro, mi intrufolavo.

    Facevo sega a scuola, allora andavo alla Quattro Novembre. Era l' unico modo per passare i controlli. Non sa che fila che c' era fuori sulla Tuscolana. Almeno però mangiavo, a noi comparse ci davano il cestino, dieci lire, du mostaccioli, du fragole e 'n cappellino ».

     

     

    Rimpiange qualcosa?

    «In Italia si facevano 600 film all' anno, anche se con le cambiali. Questo rimpiango. Rimpiango l' Italia che il mondo ammirava e che al mondo insegnava. E al cinema ci andavamo tutti. Con gioia. Stupore. Adesso ho paura che al cinema vadano soltanto gli scoppiati, i soli. Il cinema invece va condiviso».

     

     

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    Il suo primo ciak?

    « Io io io e gli altri di Blasetti. Dovevo interpretare un fornaretto. Avevo 15 anni. Lo seppi mesi dopo che mi avevano preso. Ero convinto che mi avessero scartato. Invece una mattina mi vennero a prendere col 1400. Tutti a guardare. Poi mi aiutò Gianni Morandi, che conobbi mentre girava Faccia da schiaffi dentro il Farnese a Campo de' Fiori. Avevo già una figlia. Mi imposi come suo factotum».

     

    Insomma è entrato nel cinema di prepotenza...

    «E forse ho anche vissuto di prepotenza. Del resto mi sono sposato a 18 anni».

     

     

    E della leggenda del Viperetta?

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    «All' inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto, uno di quelli con gli occhi pieni di cispe e le orecchie smozzicate. Divenni adulto presto.

     

    Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva " a Massimì devi comincià, sei grande!" E io: " A ma' ma io non fumo!". E lei: " Zitto e fuma!". Il soprannome di Viperetta arrivò più tardi. Un giorno sul set mi chiesero se volevo fare un film su Pasolini. Dissi di sì.

     

    Aggiunsero che c' erano pure scene di letto e uno mi toccò il fondo schiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: " Sei una vipera, sei una vipera!". Ma fu Monica Vitti la prima a chiamarmi Viperetta. Ancora ci penso. Aveva ragione, so' na vipera».

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