Marco Giusti per Dagospia
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“Nope” di Jordan Peele è ancora primo nelle pur magre classifiche dei film più visti di agosto. Ma con 51 mila euro e 7697 spettatori, superando di un soffio proprio il vecchio e glorioso, ma stravisto “Il castello errante di Howl”, 47 mila euro per 7467 spettatori, riedizione, come si diceva una volta, del capolavoro di Hayao Miyazaki che la Lucky Red di Andrea Occhipinti ha calato per ferragosto con un calcolo accorto, puntando sui ragazzini, e non rischiando assolutamente nulla.
il castello errante di howl 4
Un tempo le nostre riedizioni estive, iniziavano i primi di giugno, erano i film di Totò, i grandi western con John Wayne, i film di Jerry Lewis. Vecchi, nuovi, per noi piccoli spettatori non c’era questa distinzione. Ma va detto che, inoltre, lo sfruttamento di un film non era certo il mordi e fuggi di oggi, visto che un film, specialmente i peplum o un Franco e Ciccio, davano il loro meglio, come si diceva allora, in profondità, cioè quando scendevano nelle terze e quarte visioni.
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E allora un Maciste o un Ursus qualsiasi riuscivano a superare anche i film di serie A. E lo sfruttamento in profondità non durava settimane o mesi, ma anche due o tre anni.
A proposito di sfruttamento, ma sbagliato, leggo che Abdellativ Kechiche, dopo quattro anni di attesa, ha deciso di fare uscire proprio ad agosto in Francia una versione ridotta del suo meraviglioso “Mektoub My Love: Intermezzo”, seconda parte di una trilogia che non credo verrà mai interamente realizzata.
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Kechiche ha tagliato metà film, durava tre ore e mezzo, togliendo quasi interamente, sembra, il personaggio fondamentale di Ophelie Bau, che tanto si offese alla prima a Cannes quattro anni fa scoprendo sullo schermo che Kechiche aveva lasciato i 13 minuti esatti di una scopata vera dell’attrice. Il film. Nella visione di allora era una bomba che non sarà mai più la stessa cosa senza la Bau.
Un film di tre ore e mezzo, scrivevo, interamente dedicato al culo della protagonista ripreso sotto ogni angolo, in questo caso la bella e prosperosa Ophélie Bau, che a Cannes non si era mai visto. Per non parlare di un pubblico di un migliaio di critici internazionali incollati dalle 22 alle 2 di notte al sederone di Ophélie trionfante sullo schermo e sommersi dalla musica tecno.
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Non solo, in questo strepitoso sequel del già lunghissimo e scatenatissimo Mektoub My Love – Canto Uno, Ophélie, dopo quasi due ore di ballo al palo col suo sedere debordante dagli shorts in primissimo piano, si lancia in una scena di ben 13 minuti dove, chiusi in un cesso, il baffuto Aimé di Roméo De Lacour, la lecca incessantemente voi avete capito dove. Scena assolutamente non sexy e di una fatica mostruosa per tutti, che stravolge completamente il personaggio di Ophélie. Dopo un po’, però, ritorna a ballare al palo. Ecco.
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Ho capito che questo “Mektoub My Love: Intermezzo”, come lo abbiamo visto allora, non lo vedremo mai. E partirà la ricerca di copie pirata del film originale. Ieri sera ho visto su Netflix il depressissimo “Trial by Fire” di Edward Zwick, buon film, tratto da una storia vera, sulla pena di morte in Texas.
TRIAL BY FIRE
Un bifolco heavy metal texao, benissimo interpretato da Jack O’Connell, che vive alle spalle della moglie, la biondina Emily Meade, viene accusato di aver ucciso le sue tre figlie dando coscientemente fuoco alla sua casa. Povero, ignorante, incapace di avere una vera difesa, viene condannato alla pena di morte via iniezione in maniera alquanto sbrigativa e rinchiuso per dodici anni nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione. Lì diventa una persona diversa e riesce a contattare uva scrittrice, Laura Dern, che cercherà di riaprire il caso. Non è male, ma alla fine della serata ero a pezzi.
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