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    CLAUDIO CECCHETTO REGOLA I CONTI CON LINUS – “QUANDO C'ERO IO DEEJAY ERA LA RADIO NUMERO UNO IN ITALIA. ORA È TERZA, A DUE MILIONI DI ASCOLTATORI DALLA PRIMA - ME NE ANDAI NEL 1984 PERCHÉ CAPII CHE MI STAVANO FACENDO FUORI. PECCATO PERCHÉ RADIO DEEJAY DOVEVA DIVENTARE UNA MULTINAZIONALE, ERA UN BRAND FORTISSIMO, NON DOVEVA DIVENTARE UNA PICCOLA APPENDICE DI UN GRANDE GRUPPO: DOVEVA ESSER LEI A COMPRARE IL GRUPPO L'ESPRESSO DI DE BENEDETTI. OGNUNO INVECE L'HA UTILIZZATA PER SE STESSO…”


     
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    Maria Elena Barnabi per “il Messaggero”

     

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    Quarant' anni fa ha cambiato faccia alle radio private italiane inventando Radio Deejay e portando la musica da discoteca in Fm Ha creato fenomeni musicali come Sandy Marton, Jovanotti e 883. Ora Claudio Cecchetto, 68 anni, sembra che voglia provare di nuovo a influenzare il mercato della musica giovane italiana.

     

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    Come? Si è inventato il Cecchetto Festival, una kermesse digitale di tre giorni riservata agli under 33 in contemporanea al Festival di Sanremo (dal 2 al 6 marzo). Sarà una manifestazione trasmessa solo via web attraverso la piattaforma A-Live, in cui si esibiranno una ventina di musicisti con un certo seguito sui social, scelti da Cecchetto, e come ospiti ci saranno tiktoker e youtuber. A presentarla, probabilmente, ci sarà un'altra webstar, cioè suo figlio Jody (26 anni, ha un seguito di 600 mila follower).

     

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    Per mettere insieme tutto ciò, il talent scout ha coinvolto due agenzie che gestiscono quasi la metà delle giovani webstar italiane: la One Shot Agency di Matteo Maffucci (Elisa Maino, Marta Losito, Gordon), e la NewCo Management di Francesco Facchinetti (Rocco Hunt, Frank Matano, Giulia De Lellis, Ricky). Sia Facchinetti che Maffucci (Zero Assoluto), per inciso, sono stati tenuti per mano da Cecchetto quando erano agli esordi e ora curiosamente si sono trasformati in imprenditori digitali.

     

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    Ha 68 anni, chi glielo fa fare di buttarsi in questa avventura?

    «Perché dovrei andare in pensione? Mica faccio sollevamento pesi. Nella mia vita la musica è stata la mia guida, come talent scout ho avuto qualche successo. Voglio continuare a farlo finché qualcuno di più grande mi dirà: Claudio, stop».

     

    L'anno scorso si era parlato di lei come consulente di Amadeus, una sua creatura, per Sanremo. Invece niente. E quest' anno organizza un Festival nelle stesse date. Una vendetta?

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    «Guardi, è uscito sui giornali, ma a me la richiesta non è mai arrivata. Comunque è normale: Amadeus ha Lucio Presta e quindi, di conseguenza, ha già una direzione artistica e i suoi consulenti».

     

    Negli ultimi anni però Sanremo ha puntato molto sui giovani talenti del web. Come quelli che sceglierà lei.

    «Nessuna concorrenza: Sanremo ormai è uno show, non è una manifestazione musicale. Quando lo presentavo io gli ospiti erano gli Status Quo e i Dire Straits. Ora ci sono attori e personaggi del gossip. Ma lo capisco: devono fare 13,14 milioni di ascoltatori. Il mio Festival sarà invece un evento musicale online dedicato ai Millennial e alla generazione Z: verranno quelli che a Sanremo non troveranno spazio. E che hanno rigorosamente meno di 33 anni».

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    Chi sono gli artisti selezionati finora? Saranno tutti trapper, la musica che va più forte tra i giovani? «No, per carità. La trap è ripetitiva: le canzoni sembrano tanti vestiti uguali, cambia solo il colore. Io spingo i ragazzi a sperimentare con il suono. C'è un gruppo che fa rock che mi piace molto, vedremo.

     

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    Comunque per farsi un'idea, sulla mia pagina Instagram sto pubblicando quelli che mi hanno segnalato. Poi ne selezionerò 60. Il 1° febbraio del 2021, 38 anni dal giorno in cui ho acceso Radio Deejay, dirò chi sono i 20 o i 24 in gara.

     

    Nei tre giorni finali ci saranno poi i voti della giuria fino ad arrivare al vincitore. Forse il primo premio sarà la possibilità di fare un concerto digitale».

     

    Lei negli Anni Ottanta e Novanta ha scoperto alcuni degli artisti di maggior successo in Italia, diversissimi tra di loro: Jovanotti, Sandy Marton, gli 883, Sabrina Salerno Cosa li accomuna?

    «Per me la musica deve servire a rallegrare gli animi. Quando l'atmosfera è pesante, c'è sempre qualcuno che dice: Dai mettiamo un po' di musica. Ti deve emozionare.

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    Tutte queste persone avevano una forte personalità: quando ho visto Lorenzo a una rassegna di provincia, io ero lì con un gruppo che vinse la manifestazione. Mollai la band su due piedi, andai da lui e gli proposi di lavorare assieme. Stessa cosa Sabrina Salerno: aveva 18 anni, ma nel mio studio dove venne con il suo manager, si alzò e cominciò a cantare, senza vergogna».

     

    A proposito di Jovanotti, lei lavorò con lui fino a Lorenzo 1992, l'album che ne segnò la svolta. Come produttore ha ancora introiti?

    «Ho le edizioni. Non sto male, ecco».

     

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    Si favoleggia di ricavi eccezionali

    «Quello che guadagnavo l'ho sempre reinvestito in Deejay. A quei tempi stavo nella foresteria della radio, un appartamento nel quale passavano un po' tutti: Fiorello, Baldini».

     

    Fiorello e Baldini negli Anni 90 sono sinonimo di feste pazze e droga. Lei ne faceva uso?

    «Allora era normale, ma io ne facevo poco uso: ero preoccupato che venisse compromesso il buon nome della radio. So che avevo la nomea di un grande consumatore, ma non era così».

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    Torniamo al Festival: inviterà come ospiti anche tutti gli artisti scoperti da lei?

    «Certo, i miei li invito tutti, anche Amadeus. Tanto basta anche un saluto virtuale: Sanremo è impegnativo, bisogna andare fisicamente, farsi massacrare in sala stampa, esibirsi. Da me invece basta collegarsi con il telefonino. Tutto gratuito ovviamente. Mi piacerebbe che la visione fosse interattiva: mentre guardo uno che canta, magari riesco a sapere di che marchio è il cappello che porta».

     

    Che fa, sta già pensando di monetizzare con il click and buy di Amazon?

    «No, sto pensando di dare più servizi all'utente. Ma è tutto un work in progress. Questa non sarà l'unica edizione: vorrei farne tre all'anno. Una in concomitanza con il Festival, una in estate e una dedicato alle cover band, un fenomeno che in Italia ha raggiunto una qualità altissima. A volte il repertorio vale più dell'artista. Speriamo che nessuno mi rubi l'idea. E se me la rubano, meglio per loro perché avranno successo».

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    Due sue progetti di successo, Deejay e Capital, sono passati in altre mani.

    «A dir la verità quando c'ero io Deejay era la radio numero uno in Italia. Ora è terza, a due milioni di ascoltatori dalla prima e un po' ci rimango male».

     

    Era il 1994: è ancora una ferita aperta?

    «Me ne andai perché capii che mi stavano facendo fuori. Mi avrebbero lasciato divertire per quattro o cinque anni e poi sarei andato via con niente. Peccato perché Radio Deejay doveva diventare una multinazionale, era un brand fortissimo, non doveva diventare una piccola appendice di un grande gruppo: doveva esser lei a comprare il Gruppo L'Espresso di De Benedetti.

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    Ognuno invece l'ha utilizzata per se stesso, non c'è stata la voglia di evolvere».

     

    Con quei soldi lei fondò Radio Capital, che poi nel 1996 vendette nuovamente a De Benedetti. Perché?

    «Mi sono detto: almeno rimangono assieme. E poi la mia richiesta era davvero assurda. Ma l'accettarono».

     

    Quanti soldi fece?

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    «Una settimana prima di firmare l'accordo si fece avanti il Corriere. Ma non avevano abbastanza soldi. Non dico quanto, ma monetizzai molto di più con Capital che con Deejay».

     

    Nicola Savino, Fiorello, Jovanotti e Amadeus la seguirono. Linus e suo fratello rimasero e presero in mano la radio.

    «Non mi aspettavo niente di diverso da Linus. Come ha detto lui, gli chiesero di diventare il condottiero della radio e rispose di sì».

     

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    I giovani spettatori che seguiranno il suo festival ascoltano la radio?

    «No, i giovani sono abituati a guardare le immagini. Come dice il mio amico Lorenzo Suraci di Rtl 102.5, il futuro è la radiovisione. Certo finché ci sposteremo in auto, la radio potrà sopravvivere così come è oggi, solo ascoltata. Ma ormai non è più rivoluzionaria. È diventata una cosa seria, una cosa con cui fare soldi. E poi è rimasta in mano alle persone che l'hanno inventata tanti anni fa. Tutti sessantenni. Io a un certo punto il microfono l'ho mollato, questi no».

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    Dovrebbero mollare?

    «È il pubblico che decide. E finché hanno un pubblico, fanno bene a restare. E poi la radio si fa per passione. Chi sono io per dire che gli altri devono rinunciare alle proprie passioni? Io non lo faccio».

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