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CLIC! L’OCCHIO SULLA POP ART - IL FOTOGRAFO AURELIO AMENDOLA RACCONTA IL SUO (DOPPIO) WARHOL: “ERA MALLEABILE, GENTILISSIMO E MUTO. QUANDO TORNAI DA LUI STAVA GIÀ MALE. LO TROVAI IMPALLIDITO, CON QUEL PARRUCCHINO AVEVA PERSO LA SUA NATURA IRONICA..."

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Roberto Scorranese per il “Corriere della Sera”

 

New York, 1977. Aurelio Amendola aveva 39 anni e aveva già fotografato artisti come Giorgio De Chirico. Andò in albergo e compose il numero della Factory. Rispose la segretaria. Lui disse solo: «Senta, io vorrei fotografare Andy Warhol».

 

Che, è vero, non era ancora ammantato di mistica come oggi, ma era pur sempre il principe della Pop Art — per capirci: aveva già presentato la sua seriale Campbell’s Soup ed era sopravvissuto all’attentato a opera della femminista radicale Valerie Solanas. E, peraltro, allergico ai ritratti fatti da altri. Tempo tre minuti: «Venga domani alle 11», disse la donna. 
 

E così Amendola andò alla corte di Warhol, scattando un cospicuo numero di foto che, dal 12 settembre, saranno in mostra al Marca — Museo delle Arti di Catanzaro, prima tappa di un tour che poi approderà a Torino e in altre città. Non solo: domenica alle 20.30, su Sky Arte Hd, andrà in onda un documentario dedicato alla carriera di Amendola, uno dei massimi fotografi di sculture e artisti, dal titolo L’occhio sull’arte, prodotto da Piero Mascitti (curatore anche della mostra). 
 

Amendola ha 77 anni e l’ironia (affilata dalle frequentazioni) gli permette di guardare all’indietro la sua vita con distacco intelligente. «E che ne so perché mi accolse così facilmente? Forse perché quando sentì che avevo fotografato De Chirico qualcosa scattò in lui». Già, perché due anni prima Warhol aveva incontrato il maestro della metafisica e si era cimentato in una interpretazione dei suoi temi.

 

Ma c’è un’ipotesi più affascinante proposta da Alan Jones nel volume (Silvana Editoriale) che accompagna la mostra: il fatto che Amendola si presentasse come fotografo di «Oggi» era una garanzia di sublime popolare, genuina chiarezza, lontana dagli snobismi della gauche caviar . 
 

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Certo, fu un incontro breve (un’ora) ma memorabile. «Era malleabile, gentilissimo e... muto, anche perché io non parlavo inglese né lui l’italiano. Ma diverso, senza i vezzi bizzosi di molti altri artisti con cui avevo lavorato». Guardando le foto emerge il ritratto di un uomo dolente eppure quieto, dolcemente ferito, di certo consapevole di una cosa: lo stesso atto di farsi fotografare per lui era una performance, un infinito gioco di rimandi dal soggetto all’oggetto, barthesiano , come ha intuito Gianluigi Colin in uno dei saggi del catalogo. 
 

«Che differenza con altri artisti che mi è capitato di ritrarre — continua Amendola, anticipando qualche contenuto del documentario atteso su Sky —. Penso allo stesso De Chirico, l’unico, credo, che dipingesse in giacca e cravatta. Amava le cose raffinate e le cene gustose, a dispetto della poetica enigmatica». Con Francis Bacon poi la cosa sfiorò il comico: «Grazie all’amico comune Roberto Sanesi, riuscii a farmi invitare da lui a Londra, addirittura nel suo celebre studio disordinatissimo. Ebbene, due giorni fianco a fianco e non mi permise nemmeno di tirare fuori la macchina fotografica!». 
 

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Niente a che vedere con l’amicizia con Alberto Burri, del quale ci ha lasciato la celebre immagine di un uomo avvolto dalle fiamme delle sue stesse combustioni. O con la profondità tormentata di Roy Lichtenstein, che dietro i fumetti e gli «sbam» nascondeva un meticoloso studio della classicità.

 

O con il suo amico più caro, che ha qualche anno in più e non parla mai: il David di Michelangelo, una delle sequenze fotografiche più suggestive di Amendola, dove (forse più che nella Pietà ) il bianco e nero è rivelatore, cattura la forza bambina del pastorello coraggioso. 
 

Ma Aurelio da Pistoia, che nei modi ha conservato una certa allegria infantile, parla anche del secondo incontro con Warhol, avvenuto nel 1986, un anno prima della morte dell’artista e ne parla con uno stupore addolorato, come un bambino ammutolito davanti alle cose grandi, quali la fine della vita.

 

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«Tornai da lui, si ricordava perfettamente di me. Ma stava già male e lo trovai affranto, impallidito, con quel parrucchino che aveva perso la sua natura ironica per diventare un apparato riparatore. Ma non fu mai triste: fu piuttosto genuinamente stanco». 
 

Anche questo Warhol, scarnificato, ridotto all’essenzialità del segno, dell’icona (che destino compiuto per l’uomo che ha fatto dell’arte una reiterazione di gesti, dettagli, sagome), è in mostra a Catanzaro, segnando un cerchio che si chiude, per Amendola.

 

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Lui, che ha fotografato Guttuso e Pistoletto, Tapies e Baj, Accardi e Schifano, confessa di avere ancora un debito con Andy Warhol: «Lui non ha mai avuto le foto che gli ho fatto, per diversi motivi. Forse questa mostra è una sorta di risarcimento, non per lui, no, bensì per me stesso». 

rscorranese@corriere.it

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