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È stata la tensione emotiva tra la timidezza e la sua curiosità per le persone che ha contribuito a dar vita alla straordinaria carriera di Janette Beckman, la fotografa che ha raccontato il mondo delle sottoculture. «Mi sono resa conto che avere una macchina fotografica ti dava la licenza per avvicinarti agli estranei e dire: 'Ciao, vorrei farti una foto’». Questa scoperta ha dato il via a un'avventura di 45 anni nella fotografia, documentando i giovani punk della Gran Bretagna degli anni '70, la nascita dell'hip-hop a New York, i membri delle gang latine a Los Angeles, i motociclisti ad Harlem, i rodei, convegni e manifestazioni da Occupy Wall Street a Black Lives Matter.
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Mentre parliamo in videochiamata, la 62enne Beckman mi fa fare un tour del suo studio a New York, appena fuori dalla Bowery, dove un tempo si trovava il famoso locale punk CBGB. C'è uno snowboard Salt-N-Pepa, un dipinto di Keith Haring e dischi d'oro delle star dell'hip-hop Dana Dane e EPMD. Su una striscia di muro una selezione di immagini di Occupy Wall Street nel 2011. E su un altro sono appuntate una vasta selezione di sue immagini, per la sua monografia “Rebels: From Punk to Dior”.
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E poi tanti scatti familiari. Salt-N-Pepa nel 1987, impertinente in pelle e bling; Salt scrive nel libro che Beckman ha catturato "l'essenza di chi eravamo in quel momento, giovani donne vibranti in missione per conquistare questo genere dominato dagli uomini chiamato hip-hop". I Beastie Boys posano in un gruppo di fumetti nel 1985; Ad Rock scrive: «Janette è come una che legge la mente... Il suo lavoro è un OH-SHIT».
Beckman ha il talento di spingere i soggetti a mettere a nudo le loro anime come se fosse un atto di sfida. «Formi questa relazione intensa molto rapidamente con i tuoi soggetti, o è quello che cerco di fare – ha detto - Sono l'antitesi di una come Annie Leibovitz, che ha 20 assistenti e porterebbe il soggetto in cima alla montagna". A Beckman piace mantenere tutto molto semplice: «Invece di avere un preconcetto su chi sia la persona, non voglio sapere troppo perché voglio che mi dicano chi sono».
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La fascinazione di Beckman per la ritrattistica è iniziata da giovane. «Crescendo a Londra - dice - ho passato molto tempo alla National Portrait Gallery. E fissavo le persone sull'autobus per la scuola cercando di immaginare come fossero le loro vite».
Ha iniziato il suo corso di fondazione d'arte alla Central St Martins, aspirando a diventare il prossimo Egon Schiele o David Hockney. «Vivevo a Streatham dove disegnavamo tutti e tutto ciò che ci interessava era l'arte e la musica».
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Ma non pensava di essere abbastanza brava e si iscrisse a quello che allora era il London College of Printing (ora London College of Communication), «per fare fotografia, come un altro modo di fare ritratti?.
Presto divenne ossessionata dal fotografo documentarista dell'inizio del XX secolo August Sander: «Stava documentando le persone per strada – dice - Sono solo ritratti molto semplici». Una delle immagini più famose di Beckman è quella dei gemelli britannici nigeriani Chet e Joe Okonkwo, che ballavano sul palco con i Madness e sono diventati famosi a Londra per i loro sguardi taglienti e le conversazioni vivaci. Scattata nel 1979, è stata pubblicata nel primo numero della rivista Face. «È il mio omaggio a Sander - dice - perché è un ritratto davvero semplice, ma mostra chi sono queste persone».
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The Face, insieme alla rivista rivale i-D, ha contribuito a farla diventare una pioniere nella fotografia street style e gli editori hanno dato libero sfogo a Beckman. «Mi mandavano in un club di boxe illegale nel sud di Londra, o in un festival rock di Loch Lomond, dove potevo andare a fotografare i fan così come le band. Questo mi ha dato la possibilità di documentare tutte queste culture giovanili»
Nel 1982, Beckman si trasferì a New York. «Il punk era ormai in declino, e c'era quell'atteggiamento dell'era Thatcher, 'tutto è merda in Inghilterra'. E avevo scoperto l'hip-hop. C'era qualcosa nell'energia che era così diverso da Londra. È stato eccitante».
il libro rebels from punk to dior di janette beckman
All'inizio degli anni '80, New York si stava riprendendo da una quasi bancarotta e stava attraversando un'incredibile rinascita culturale, dall'hip-hop nel Bronx alla scena artistica del centro. Beckman viveva a Tribeca, che allora era "un quartiere di magazzini deserti". Il famoso Mudd Club, dove Freddy Fab 5 insegnò a Debbie Harry a rappare, era dietro l'angolo. «È stato davvero fantastico – dice - Ed era pericoloso».
Ingenua e sfacciata, vagava per il Bronx o si recava sulla costa occidentale americana per bighellonare nelle gang di Los Angeles, alla ricerca di personaggi interessanti. «Sono una donna piccola con una macchina fotografica, non intimidisco. Quindi la gente si fidava di me. Sei davvero un estraneo sul territorio di qualcun altro e in qualche modo ti rispettano per essere lì»
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Negli ultimi anni, la Beckman è stata invitata a fotografare l'alta moda. Nel 2019 ha fotografato la collezione autunnale di Dior a Kentish Town, a Londra, contro i muri dove un tempo aveva immortalato giovani punk.
La direttrice creativa di Dior, Maria Grazia Chiuri, le aveva commissionato nel 2016 di documentare la realizzazione di una collezione nel suo atelier parigino. «Sono andato a vedere i sarti e a guardare le persone che cucivano paillettes, le modelle che fumavano in giardino e si vestivano e le file di scarpe. Questi mondi sembrano così affascinanti, ma dietro ci sono persone che lavorano che cercano di creare il glamour».
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Molti dei vecchi ritrovi di Beckman a New York sono stati da tempo gentrificati e hanno assunto una posa hipster omogenea. Quando si trasferì al suo attuale indirizzo, nel 1996, era «industriale, con parcheggi e un deposito di legname, un negozio di forniture idrauliche». Nel frattempo, l’avvento di Internet significa non ha fatto esplodere un nuova tendenza giovanile, ma Beckman non crede che nulla di tutto ciò segni la morte delle sottoculture.
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Cita la scena black punk a Brooklyn, come documentato dalla sua amica fotografa Destiny Mata, e dice «ci saranno sempre delle sottoculture. Ci saranno sempre persone che spuntano fuori con nuove idee, a qualunque età abbiano e da qualunque parte provengano». Ammette, tuttavia, che Internet può strappare le culture emergenti dalle loro comunità troppo presto, quindi «non hanno tempo per svilupparsi».
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Ma Beckman continua a seguire il suo naso e spesso questo la porta lontano dalle città costiere, al Black Bikers Club di Omaha, per esempio, o alle gare di speedway in Indiana. Nel 2017, dopo l'elezione di Trump, Beckman ha avviato un progetto triennale chiamato “I Vote because”, per il quale ha viaggiato attraverso gli “swing state” facendo ritratti e incoraggiando le persone a registrarsi per votare.
Questo non vuol dire che non ci sia molta “attività clandestina” a New York, dalle risse illegali tra ragazze a Brooklyn a un gruppo di motociclisti da cross ad Harlem (anch'essi illegali) chiamati Go Hard Boys, che hanno fatto un'eccezione al loro non voler essere fotografati solo per Beckman. «La prima volta che li ho fotografti era il 2008. Stavo viaggiando sul retro di un camion lungo la Bruckner Expressway con queste persone che facevano le impennate. Era pericoloso, un po' folle quando ci penso. Ma ero così felice».
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INTERVISTA CON JANETTE BECKMAN
Potresti descrivere cosa significa essere un ribelle negli anni ’70, ’80 e oggi?
Sono andata via di casa per iscrivermi alla scuola d’arte: in quel momento sono diventata una ribelle. Quando mi sono diplomata, il punk britannico e la ribellione giovanile erano già iniziati. Eravamo in recessione, la disoccupazione era diffusa, stavamo combattendo contro il vecchio sistema e contro Margaret Thatcher. Abbiamo ascoltato punk, 2 Tone e reggae, abbiamo marciato per “Rock Against Racism” e letto libri sul femminismo e le Black Panther.
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Quando mi sono trasferita a New York, nel 1983, la città era al verde. Canzoni come “The Message” di Grand Master Flash & the Furious Five e “Fight the Power” dei Public Enemy parlavano dell’essere neri in America rivolgendosi alla loro generazione e venivano riprodotte sui boom box e le autoradio. Questi artisti erano ribelli, lo dicevano ad alta voce, trasmettevano messaggi che la gente dei ricchi sobborghi bianchi non voleva sentire.
Oggi i ribelli hanno Internet per diffondere il proprio messaggio. Organizzazioni come “Black Lives Matter” hanno accesso ai social media per promuovere proteste e dibattiti su razzismo e sulle ingiustizie nei confronti delle persone di tutto il mondo.
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Qual è, secondo te, la differenza tra il movimento politico di oggi e quello degli anni Settanta?
La differenza principale è Internet e la comunicazione. Negli anni ’70 dovevamo fare affidamento a giornali e riviste per spargere la voce, il che poteva richiedere settimane. I movimenti politici odierni utilizzano Internet, Instagram, Facebook, SMS, ecc. Tutto ciò permette di far sapere immediatamente alle persone in tutto il mondo cosa sta succedendo.
Cosa significa per te “Black Lives Matter”?
“Black Lives Matter” è la voce di una generazione che parla di centinaia di anni di razzismo, brutalità della polizia e ingiustizie sociali. Sono dei veri ribelli che stanno cambiando il mondo, contro ogni previsione.
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Qual è la tua fotografia più significativa sul documentario di Youtube che hai realizzato in collaborazione con il cantante jazz Jose James?
È dura: funzionano davvero meglio tutti insieme. Jose, Talia e io abbiamo messo insieme il video 3 ore la sera prima dell’uscita della canzone “When They See Us”, è una vera e propria collaborazione.
Cosa ti ha spinto a fotografare le manifestazioni e le proteste negli ultimi 10 anni?
Durante il lockdown sono stata costretta a uscire e documentare le dimostrazioni, la passione e la rabbia. È stato stimolante e importante. Ho documentato proteste per decenni, da “Rock Against Racism”, “Act Up” sull’Aids, i diritti delle donne, fino a “Occupy Wall Street” e le odierne dimostrazioni di “Black Lives Matter”.
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Come hai vissuto la misoginia dell’Hip Hop americano durante il passaggio dal punk all’Hip Hop a New York?
Onestamente non ho avuto problemi. Come fotografa britannica che documentava l’Hip Hop, sono stata accettata e rispettata.
Come si inserisce “Real Recognize Real” nella pubblicità dei marchi del lusso e della moda di strada oggi?
Per me “Real Recognize Real” parla di rispetto e autenticità. Non puoi “comprare” queste cose. I marchi di lusso e streetwear vogliono identificarsi con BLM, ma devono fare il lavoro. Dapper Dan ha avuto l’approccio giusto l’anno scorso quando ha portato il CEO di Gucci ad Harlem per parlare di come apportare modifiche e lavorare sull’approccio alle diversità per il marchio.
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Sei una delle poche fotografe che hanno immortalato il movimento Rap dagli inizii fino ad oggi. Puoi descrivere la scena negli anni Settanta e oggi, quali sono le maggiori differenze? Puoi fare una previsione sul futuro della scena Rap nel mondo?
Ho fotografato il mio primo concerto Hip Hop nel 1982 a Londra. Vedere DJ, rapper, breakdancer e street artist esibirsi e fare arte sul palco insieme è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Mi sono trasferita a New York due mesi dopo. C’erano ballerini di breakdance sulla musica di strada che risuonava da boom box, treni coperti di graffiti. C’era energia ed eccitazione in città anche se le persone non avevano nulla.
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Era una città pericolosa, droga, disoccupazione, gente senza fissa dimora, divario tra chi ha e chi non ha, ma da questo è nata la cultura Hip Hop, l’arte della musica, la poesia, la breakdance, lo street style e molto altro ancora. Difficile prevedere il futuro del Rap, abbiamo il virus, la recessione e in questo momento nessuna opportunità di musica dal vivo. Ma gli artisti trasmettono ancora musica su Spotify, fanno i DJ su Instagram Live e trovano modi alternativi per esibirsi.
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Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto lavorando con DRAGO su un libro che documenta 40 anni della mia fotografia. Sto scavando negli archivi: punk, Hip Hop, cowboy, gang di L.A., motociclisti di Harlem, ritratti di strada e altro ancora.
Sto anche lavorando a un nuovo servizio fotografico per un giovane artista Rap che ho fotografato a febbraio, ha molto talento e ha oltre 3 milioni di follower su Instagram.
Fra le altre cose voglio realizzare un video, da mostrare nelle scuole d’arte, sul processo del mio lavoro. E ovviamente continuerò a documentare le proteste.
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