Carlo Melato per “la Verità”
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Con l'eleganza di Sherlock Holmes e la perizia di chi, oltre a fare il critico dalla platea, si è distinto nel mondo salendo sulla pedana del direttore d'orchestra, Francesco Maria Colombo è tornato sul luogo del delitto. L'ultimo di una lunga serie nel campo dell'Opera. Kaiserwalzer, la sua trasmissione su Classica Hd, ha risolto infatti il caso riguardante Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, messo in scena al Teatro alla Scala il mese scorso.
Una (gelida) manina - non sappiamo di chi - era intervenuta pesantemente sul libretto di Antonio Somma, impedendo al compositore «che pianse e amò per tutti» (come scrisse Gabriele D'Annunzio) di dipingere un animo intollerante attorno a un personaggio: il primo giudice. Il suo insulto all'indovina Ulrica, «dell'immondo sangue dei negri», è stato infatti censurato in favore di un più socialmente accettabile «del demonio maga servile».
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Un gesto «gramo e scadente», lo ha definito Colombo, paragonandolo a un episodio del 1941, quando «Morte ai tedeschi» della Forza del destino - sempre del povero Verdi - divenne «Morte ai nemici», per non turbare la Germania hitleriana.
Per il musicista e musicologo, che ora si dedica con la stessa passione ai romanzi e alla fotografia, non si tratta di riabilitare una parola che oggi viene usata in senso dispregiativo, ma di denunciare una falsificazione: «Per sentirci al sicuro», ha spiegato Colombo, «ci inventiamo un 1858 che non è mai esistito, in cui la parola "negro" non veniva pronunciata, anche se allora aveva un significato diverso. E facciamo questo non sulla base di scelte personali, ma in virtù di un pensiero unico che stabilisce cosa può essere detto e cosa no. Non siamo più in grado di avere un rapporto dialettico con la storia».
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Se, per timore che qualcuno si offenda, facciamo diventare un po' più buoni i cattivi, il racconto va a rotoli.
«Soprattutto in Verdi, artefice di una drammaturgia millimetrica, nella quale nulla è lasciato al caso. Le dirò di più, censurare la verità storica è un problema in sé, ma farlo con le sue opere è assurdo. Se c'è stato uno che ha sempre dato voce agli impresentabili quello è stato proprio Giuseppe Verdi. I protagonisti del suo teatro sono un moro (Otello), un mulatto (La forza del destino), una puttana (Traviata), un gobbo (Rigoletto)... Verdi amava questi personaggi e non ne aveva paura. Noi sì».
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Il compositore di Roncole dovette tenere testa, in vita, alla censura austriaca, borbonica (tanto è vero che portò via da Napoli Un ballo in maschera) e pontificia. Oggi, da morto, non ha potuto difendersi da quella scaligera?
«La censura c'è sempre stata e continua oggi, anche se non ce ne rendiamo conto.
La vera vittima di tutto questo comunque non è Verdi, perché la sua opera rimarrà, al di là di come viene eseguita. Le vittime siamo noi. E a questo punto mi porrei una domanda».
Quale?
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«Queste falsificazioni a chi giovano? A nessuno, né alle minoranze, né all'integrazione. L'unico scopo è adeguarsi a un parametro collettivo che non corrisponde ad alcun progetto culturale autentico. Per questo dico che il problema non è la Scala, ma quello che è successo a Milano è un segno dei tempi».
Qualche anno fa, la trama della Carmen di Bizet venne stravolta in onore della lotta al femminicidio: la bella sigaraia non veniva uccisa, ma era lei a far fuori Don José.
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«L'ennesima sciocchezza che non ha aiutato a combattere la violenza sulle donne. Allo stesso modo, ho letto sul New York Times di una Turandot di Puccini messa in scena in Canada cambiando i nomi delle tre maschere - Ping, Pang e Pong - perché avrebbero messo in burletta un gruppo etnico riconoscibile. È pura follia. Non si conosce Puccini, che nella Butterfly fa di una giapponese l'eroina e di un bianco americano il cattivo. E poi, parte della bellezza di Turandot è proprio la dipintura di un mondo orientale fantastico: la Cina delle fiabe. Quei nomi hanno una connotazione poetica, non caricaturale».
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Anche l'Aida ormai inizia a essere definita un'opera colonialista.
«Chi vede nel passato qualcosa che non va dovrebbe studiarlo, dibatterlo, anche avversarlo. L'importante è non riscrivere la storia a piacere».
Oltre alla revisione politicamente corretta dei libretti, negli ultimi anni il mondo dell'opera è stato travolto anche dall'onda del Me too.
Alcuni big della musica sono stati cacciati da grandi teatri al comparire delle prime accuse, alcune verificate, altre meno «Il criterio dovrebbe essere elementare: tutti i comportamenti illeciti accertati da un giudice devono essere puniti. Il problema è che hanno iniziato a emettere sentenze i tribunali interni alle fondazioni e ai teatri, in base a codici etici totalmente arbitrari. Siamo alla barbarie. Anche perché queste condanne illegittime vengono date in pasto ai social, segnando la damnatio memoriae di grandi musicisti».
Dei quali, applicando la cancel culture, vengono poi fatte sparire le tracce, anche discografiche.
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«Ricordo un articolo, che mi fece rabbrividire, di un critico del New York Times che confessava di non sapere se buttare i dischi del direttore d'orchestra James Levine, coinvolto pesantemente negli scandali. Un altro caso indecente è stato quello della radio di Montreal, che ha iniziato a trasmettere le incisioni di un direttore straordinario come Charles Dutoit, senza menzionarlo, ma citando solo l'orchestra. Siamo al punto di partenza: inventiamo una realtà parallela nella quale gli orchestrali suonano senza il direttore...».
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Cortocircuito per cortocircuito, in questo manicomio mancava solo la russofobia musicale, anche retroattiva, scattata dopo l'invasione dell'Ucraina.
«Alcune star che hanno appoggiato pubblicamente le azioni militari di Vladimir Putin se la sono andata a cercare. Molti altri artisti invece sono stati discriminati in quanto russi e questo non è accettabile. Anche perché poi a pagare sono i musicisti più giovani e meno famosi e alcuni giganti come Ciaikovskij e Rachmaninoff. Difficile che fossero putiniani Se vogliamo fare un bilancio, il mondo della musica mi sembra paralizzato dal terrore di fare qualcosa di scorretto. Anche quando bisogna selezionare i musicisti per un'orchestra».
A cosa si riferisce?
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«In America si inizia a ragionare per quote etniche e di genere. Il talento non è più l'unico criterio. Per questo sta sparendo il paravento dietro il quale il candidato suonava per evitare che si verificassero favoritismi di qualunque tipo. Il paradosso è che se il talento rimanesse la bussola, l'orchestra avrebbe una sua naturale varietà».
Se fino a qualche anno fa era il Medioevo a essere definito «secolo buio», contro il parere di illustri studiosi, oggi per il pensiero dominante le tenebre arrivano fino all'altro ieri. A questo punto viene da chiedersi quando e chi ha acceso la luce.
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«Io credo che il secolo buio sia questo. Viviamo in una società nella quale la galanteria sta diventando illegale: se chiedo a una ragazza di uscire a bere un cocktail devo portarmi l'avvocato».
A giudicare dai suoi libri, i cocktail, al pari dell'arte e della fotografia, sono una cosa estremamente seria.
«Forse troppo, visto che una mia pagina social è stata oscurata perché avevo pubblicato la ricetta originale del Negroni» (ride). «Siamo nelle mani di un algoritmo che non sa distinguere una bevanda da un'espressione razzista. E forse dovremmo riflettere di più sui gruppi di potere che hanno messo le mani sugli strumenti di comunicazione globale. O pensi, scrivi, reciti come dicono loro o ti cancellano. È decisamente inquietante».
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