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    “IO SONO UN ARTIGIANO. DA QUANDO SENTII VALERIA MARINI DIRE "NOI SIAMO ARTISTI" MI SONO TOLTO DA QUESTA CATEGORIA” – MAURO CORONA PARLA DELLA SUA ATTIVITA’ DI CREATORE DI OGGETTI DI LEGNO: "VORREI METTERE IN PIEDI UNA SCUOLA MANUALE. PER SALVARE L'ULTIMA COSA CHE RIMANE DELLA NATURA NELL'UOMO: LE MANI - SE VENISSERO A DIRMI CHE HO VINTO IL PREMIO NOBEL, NON MI AFFACCEREI NEMMENO DALLA PORTA. ORA SONO UN UOMO SERENO, NON FELICE. NON HO PIÙ VENDUTO UNA SCULTURA, UNA L'HO REGALATA A BIANCA BERLINGUER PERCHE’…"


     
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    Maria Corbi per “Specchio – La Stampa”

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    Mauro Corona crea oggetti di legno. Ma non chiamatelo scultore: «Io sono un abile artigiano, come diceva Michelangelo. Da quando sentii Valeria Marini dire "noi siamo artisti" mi sono tolto da questa categoria».

     

     

    Per lui le mani sono molto di più di una parte del corpo, connesse intimamente all'anima, al pensiero, all'origine: «Toccare con le mani è istintivo, che sia un oggetto o la testa di un figlio, la spalla di una donna. Jean Giono disse che in pochi conoscono la divina capacità di fare qualcosa con le mani».

     

    Un talento naturale è sacrificato da un'educazione che non dà importanza al «saper fare». «Negli asili, alle elementari manderei a insegnare contadini, guide alpine, boscaioli, falegnami, per dare ai bambini il senso dell'uso delle mani, la capacità di farsi le cose da soli».

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     In attesa di una riforma scolastica arriva in soccorso la «moda» del bricolage.

    «Più che moda definirei questa tendenza un recupero. Ma non per la nostalgia di un passato che non esiste E' l'assecondare questa naturalità che ogni essere ha. E' questo è il futuro, non per salvare un lavoro, un'etica, un mestiere, ma per salvare l'ultima cosa che rimane della natura nell'uomo: le mani».

     

    «Io ho 71 anni e quindi ho visto un passato in cui le mani e i piedi erano tutto», continua lo scrittore. «Ho iniziato con mio nonno che faceva sculture di legno, oggetti che poi vendeva d'estate. I miei genitori mi avevano abbandonato e io avevo solo questo vecchio a cui affidarmi. E mentre formavo oggetti con il tornio mi sentivo bene, non pensavo al dolore, alla malinconia».

     

    Poi però non è diventato un falegname ma uno scrittore, un intellettuale che usa la testa, più che le mani.

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    «Lavorare con le mani guidate dal cervello è come scrivere. Io scrivo a mano perché sento l'idea che va giù dalla testa, passa dalle mani e si colora sul foglio. Io ho bisogno delle dita, poi ricopio in stampatello perfetto, faccio fotocopie e mando tutto alla casa editrice. Usare le mani mi toglie dalle insicurezze, dalla stanchezza dei giorni e della vita, dalla malinconia.

     

    Vorrei mettere in piedi una scuola manuale, e anche se Crozza mi fa il verso, lui ha capito che ho ragione. I bambini sono tristi perché gli fanno fare cose che la loro natura non sente. Oggi ci si vergogna a dire voglio fare il falegname, perché si deve fare il notaio, l'avvocato, il commercialista».

     

    Per Corona lavorare con le mani è una ragione di vita, per altri solo un hobby.

    «Anche un contrappeso a tutta questa tecnologia che in qualche moda ci toglie il talento naturale. Ma non è una critica, attenzione, voglio solo ricordare che l'uso delle mani è importante anche per una soddisfazione personale, per la sicurezza. Ripeto, occorre insegnarlo ai bambini».

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    Lui con i suoi figli lo ha fatto:

    «Loro da bambini si sono fatti il presepe di legno, o di dash, sanno spaccare la legna, fare l'orto, ma vorrei insegnarlo anche a tuo figlio. Vorrei portare i ragazzi con me. Quando ero in collegio con i preti al Don Bosco c'erano 45 ore di lavori manuali, e anche alle scuole qui al paese. E ripeto, non per nostalgia ma perché è una cosa insita nell'uomo. Quando l'uomo si drizzò in piedi fu costretto a usare le mani, è nell'archetipo umano. Oggi orribilmente ci si saluta con un gomito, ed è di una banalità sconcertante, meglio farsi un cenno con la mani».

     

    La mano è meglio degli occhi perché ti dà contatto.

    «Quando metti le mani su una pianta lei sente che gli dai calore. Da ragazzino andavo con mio nonno a fare gli innesti e quando incideva la pianta mi diceva "mettigli le mani intorno, così lei capisce che ci teniamo a lei, che non vogliamo farla soffrire"».

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    Il tatto come senso di elezione.

    «Al mio paese c'era un tornitore, Giacomo, che aveva fatto la guerra di Africa e che torniva quasi al buio. Io gli dicevo "metti una lampadina", ma lui rispondeva "a me non serve vedere, io sento". Io che ero un provocatore allora gli chiesi: "se devi leggere un giornale?" Lui mi disse, serenamente "non so leggere"».

     

    Corona torna continuamente al suo essere bambino, quando capì che per scalare le montagne e la vita aveva un solo alleato, le mani. E torna alla necessità di educare al tatto i bambini: «I bambini usano le mani sulle tastiere, ma è monotono. Toccare la plastilina, il legno l'argilla è toccare materia viva».

     

    Come fa lui nel suo laboratorio di Erto, poche centinaia di abitanti in Friuli Venezia Giulia nella valle del Vajont.

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    «Ultimamente da circa un anno e mezzo non faccio più sculture come opere d'arte, scolpisco gnomi, folletti, gufi, civette con il pino cembro e quando passa un bambino gliene regalo uno e vedo nel suo volto una gioia che ricorderà a vita. Quando saranno adulti ricorderanno quel vecchio con la barba bianca che gli regalò un gufo.

     

    Io da un paio di anni mi sono liberato della vanità. E' l'età. Sono stato anche io competitivo, nell'arrampicata, nella scultura, nella letteratura. È nell'animo umano, più si è stati bastonati dalla vita e più si cerca affermazione.

     

    Ma ho capito che ero sulla strada sbagliata, ero un guerriero che perdeva, o vinceva tutte battaglie perse, perché la società mi diceva che dovevo emergere. Volevo i premi letterari, ma oggi, ti giuro, che anche se venissero a dirmi che ho vinto il premio Nobel, non mi affaccerei nemmeno dalla porta. Ora sono un uomo pacifico, sereno, non felice. Non ho più venduto una scultura».

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    Una l'ha regalata però alla sua "Bianchina", Bianca Berlinguer.

    «Le ho mandato giù un gufo perché aveva bisogno di un porta fortuna. Faccio sculture che siano utili, se mi chiedi un ritratto di donna e lo metti in salotto dopo un mese non ti accorgi che c'è. Ma se ti scolpisco una sedia tu hai la scultura e anche la sedia. Ho fatto delle librerie piene di creature del bosco».

     

    Le mani per fare e anche per arrivare in luoghi inerpicati nella propria anima o nella testa. «Quando ci si arrampica è tutto un tastare, toccare. La roccia non è morta. Io non arrampico per conquistare, ma per sentire, per palpare, per sfiorare. Ogni appiglio ha una sua struttura. Ogni centimetro è pieno di sensazioni, ogni metro mi propone la sua sensibilità, io ci chiacchiero con le mani. È come giocare a scacchi, a ogni mossa ne possono seguire migliaia, come nella vita». -

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