Stefano Montefiori per corriere.it
laboratorio wuhan
«Sono felice di trovarmi a Wuhan, che alcuni chiamano ”la piccola Francia” di Cina, cuore della cooperazione franco-cinese», diceva il primo ministro Bernard Cazeneuve nel 2017, alla fine della presidenza Hollande. L’accordo celebrato in quell’occasione prevedeva l’arrivo a Wuhan di 50 scienziati francesi nell’arco di cinque anni, ma tre anni dopo nessuno è mai entrato nel laboratorio P4 - consegnato praticamente chiavi in mano dai francesi - nella ”piccola Francia” di Cina. Negli ultimi giorni l’attenzione è tornata a concentrarsi sul laboratorio di Wuhan dopo che il Washington Post ha ricordato come nel 2018 il personale dell’ambasciata americana in Cina allertò Washington sulle carenze di sicurezza nel laboratorio.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo invoca un’inchiesta, il presidente Emmanuel Macron dice che in Cina «sicuramente sono accadute cose che non sappiamo» e anche la cancelliera Merkel richiama la Cina a una maggiore trasparenza. Per adesso, molte teorie di complotto e nessuna prova sul fatto che il Covid-19 possa essere sfuggito al laboratorio di Wuhan.
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Le preoccupazioni sulla sicurezza accompagnano il laboratorio di Wuhan dalla nascita, frutto della cooperazione tra Cina e Francia. Nel 2003 la Sars colpisce la Cina e le autorità di Pechino vogliono migliorare la loro capacità di contrasto delle epidemie. Nel 2004 il presidente Hu Jintao trova aiuto nel capo di Stato francese Jacques Chirac e nel suo premier Jean-Jacques Raffarin, grandi fautori di un’apertura europea verso la Cina. I due Paesi decidono di combattere insieme le malattie emergenti, per esempio l’influenza aviaria, e il perno di questa nuova collaborazione è la costruzione in Cina, con finanziamenti locali e tecnologia ed esperti francesi, di un laboratorio P4 per lo studio di virus altamente patogeni, di classe 4 (la più alta per grado di pericolosità).
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La metropoli della provincia dell’Hubei appare la scelta naturale, perché sede nell’Ottocento della concessione francese e da allora cuore della collaborazione economica franco-cinese: a Wuhan ci sono filiali di marchi francesi come Peugeot, Renault, Eurocopter, L’Oréal, Pernod-Ricard e molti altri. L’idea di affidare alla Cina un laboratorio P4 desta però perplessità presso gli scienziati e gli specialisti al ministero degli Affari esteri. Per ragioni politiche, legate al trasferimento di tecnologie sensibili, e di sicurezza pubblica. «Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica», ha detto una fonte al Figaro. Virus estremamente pericolosi come l’Ebola vengono manipolati e trattati e le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure talvolta mutuate da quelli in uso nei sommergibili nucleari. Il timore è che, una volta entrato in funzione, il laboratorio di Wuhan possa funzionare al di là di qualsiasi controllo francese.
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Il cantiere viene terminato nel 2015 e l’entrata in funzione risale al 2018, in occasione della prima visita in Cina del neo-presidente Emmanuel Macron. Ma, come previsto, la collaborazione franco-cinese è durata finché c’era da costruire il P4. Una volta realizzato, i francesi vengono di fatto estromessi dall’attività e dal controllo. I 50 ricercatori francesi previsti dall’accordo non sono mai partiti, e il laboratorio P4 di Wuhan lavora in totale autonomia, senza le verifiche e la tutela francese prevista inizialmente dall’intesa Chirac-Hu Jintao.
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