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Marina Valensise per "Il Messaggero"
Se ne va con Lello Di Segni non solo l' ultimo sopravvissuto al rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943. Ma anche uno degli ultimi testimoni di una pagina infamante della nostra storia, che diventa col tempo una ferita sempre più indelebile.
Era uno dei 1023 ebrei romani che all' alba di quel sabato di ottobre furono arrestati dalle SS, con la complicità della polizia fascista, ammassati davanti a San Angelo in Pescheria, caricati sui camion a spintonate o col calcio del fucile, trasferiti per due giorni al Collegio militare in via della Lungara e da lì deportati su vagone piombato verso il lager di Auschwitz.
La mostra in corso al Palazzo del Quirinale, fortemente voluta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, espone fra gli altri documenti un fonogramma trasmesso al Ministero dell' Interno dalla Questura di Roma, in data 18 ottobre 1943, ore 22, firmato Travaglio, dove si comunica con anodina freddezza: Oggi alle ore 14 è partito dalla Stazione Tiburtina treno DDA con 28 carri di ebrei (mille circa) fra donne, bambini et uomini diretti al Brennero. Nessun incidente.
LA PERQUISIZIONE
Lello Di Segni aveva 17 anni ed era su uno di quei carri bestiame di legno, al buio, senza finestre.
Era stato arrestato all' alba di quel sabato di ottobre coi genitori, Cesare e Enrica, i due fratelli più piccoli, Mario e Angelo, e la sorellina Graziella.
Dopo una notte segnata da spari, petardi, colpi di rivoltella, era stato lui ad aprire in pigiama col padre la porta di casa, in via Portico d'Ottavia, ai due tedeschi in divisa che non parlavano italiano, ma a gesti si facevano capire benissimo.
«Avevano delle medagliette, facevano paura solo guardarli, perquisirono tutta la casa, i terrazzini, gli armadi, sotto i letti, cercando i nostri zii che erano già scappati», ricorda Lello Di Segni nel video di incontro con Aldo Pavia a Tagliacozzo nel 2012, che troverete in rete.
Anche lui si vestì, infilò qualche indumento in una sacca, prima di scendere le scale del palazzo e farsi strattonare dai nazisti per salire sul camion. Lo sguardo degli abitanti del quartiere, che assistevano inermi alla razzia, l' avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Arrivati a Auschwitz, anche Lello Di Segni, come tutti gli uomini, giovani e meno giovani, in grado di lavorare, venne separato dalla madre, dai fratelli e dalla sorellina. Non ebbe il tempo di salutarli. Da quel giorno non li vide più. Donne, vecchi e bambini venivano subito destinati alle camera a gas.
Lui invece, marchiato sul braccio come tutti gli altri deportati e diventato un numero, il 158526, era in forze e in grado di lavorare e si salvò.
«Mi sono salvato perché ho lavorato tanto» avrebbe ricordato Lello Di Segni squarciando il velo dell' orrore. «Facevo tutto quello che mi dicevano di fare i tedeschi, anche se non volevo.
Ma aveva troppo paura che mi massacrassero di botte. Era l'unico modo per andare avanti». Da Auschwitz, il lager vicino a Cracovia nel sud della Polonia, Lello Di Segni con altri prigionieri venne trasferito in un campo di Varsavia. Pesava 32 chili e doveva trasportare sacchi di cemento che ne pesavano 50.
LA FUGA
Quando ci fu l'avanzata dei russi venne deportato in Germania. Durante il tragitto, il vagone ferroviario sul quale era stato caricato fu mitragliato. Le sentinelle tedesche morirono.
Con altri prigionieri del lager in tuta a righe vagò mezzo ai campi e per miracolo, nascondendosi dietro un angolo, sfuggì a un generale delle SS che avanzava su una motoretta guidata da un soldato bardato di mitragliatrice.
Ripreso dalla Wehrmacht, finì ai lavori forzati a Halle, in una fabbrica di motori a vapore, e per la prima volta della sua vita, lui che non aveva mai rubato, dovette rubare un paio di scarpe, perché le sue gli erano state rubate e non poteva andare avanti coi piedi fasciati nelle buste dei sacchi di cemento. Infine, quando i tedeschi furono costretti a indietreggiare per l' avanzata delle truppe anglo-americani, Lello Di Segni finì a Dachau, un campo dove erano rinchiusi 50 mila prigionieri che i tedeschi, in extremis, volevano concentrare sul piazzale per fucilarli.
LA LIBERTÀ
Quando Lello Di Segni vide i tedeschi morti sulle torrette, capì che l' incubo era finito e per la gioia dormì per due giorni e due notti, prima di venir soccorso dalla Croce Rossa internazionale e trasportato a Milano, dove andò a prenderlo lo zio.
«Ho cercato di dimenticare, ma non ci sono riuscito però so' libero», diceva Lello Di Segni raccontando la sua vita da deportato e da sopravvissuto all' orrore della Shoah. E il primo che stentava a crederci era lui, il vecchio ebreo del ghetto, che aveva conservato lo sguardo mite e limpido e l' innocenza della vittima sacrificale
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