ALL’AMBRA DI UNA NEVROSI IN FIORE - ESSÌ, IL SUCCESSO FA MALE, DITELE DI SMETTERE - AMBRA CONSEGNA UN’INTERVISTA DA BRIVIDI E LIVIDI CHE FA CAPIRE COME IL CLAMOROSO EXPLOIT DI “NON È LA RAI” LO DEVE ANCORA METABOLIZZARE (VEDI L’ARROGANZA)

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Malcom Pagani per Il Fattoquotidiano

  

Addio e ricongiungimento dei suoi nonni: “Lui bellissimo, un omone di quasi due metri, parte per la guerra. Lì succedono cose brutte, gli amputano una gamba e torna a Roma che è la metà. Quando racconta la cosa più cruenta che gli sia capitata nell’esistenza, minimizza.

 

stai lontana da me ambra angiolini con giampaolo morelli stai lontana da me ambra angiolini con giampaolo morelli

‘Mi ricordo un sorso di Cognac e una botta in testa, niente più. Lei, sua moglie, si chiama Lella. È in tutto e per tutto simile alla Sora Lella originale e nell’occasione, non fa una grinza. Per l’iter di prammatica lo accompagna al colloquio con l’Esercito. I militari gli chiedono se sopra le protesi voglia scarpe nere o da ginnastica e lui pronto ‘mettime quelle ’bbone che almeno se si sposano i miei figli ho già le scarpe lucide”.

 

Sorridendo della vita e di se stessa, tra dischi di platino, nastri d’argento e globi d’oro, Ambra Angiolini avrebbe tra le mani un notevole bottino. Ma la sola idea di srotolare biograficamente il filo da Palmarola – “Che non è un’isola pontina, ma la borgata in cui sono cresciuta” – agli auricolari con il timbro di Boncompagni, le dà la sensazione del nodo scorsoio: “Scrivere la mia storia mi sa di fine vita, non è che mi fidi tanto. Suonerebbe come un riconoscimento alla carriera e io mi sento nei primi 35 minuti del film. Magari deve succedere ancora tutto”.

STAI LONTANA DA ME AMBRA ANGIOLINI STAI LONTANA DA ME AMBRA ANGIOLINI

 

A 37 anni compiuti e a 23 dal suo ingresso nel circo di Non è la Rai, Ambra Angiolini si sente in credito con il tempo: “Sono sempre arrivata fuori sincrono e a volte mi sento in una ragnatela. All’epoca in cui era più semplice stroncare che comprendere, mi dissero di tutto. Oggi riscoprono quella tv, la rimpiangono e vorrebbero imitarla. Usano una frase fatta, ti dicono : ‘geniale’ e io ho il sospetto di essere giunta tardi. Per me quell’esperienza è già vecchia. Ci sono passata. Quando sono arrivati quelli del ‘geniale’, ero da un’altra parte da un bel pezzo”.

 

Francesco Renga Ambra Angiolini Francesco Renga Ambra Angiolini

   Il teatro (due anni in giro da Sud a Nord con un bel testo di Stefano Benni) la musica, la radio, il cinema. Molte vite: “Almeno 7, come i gatti”, tanti set: “L’ultimo con Michele Placido che è esattamente come ti immagini Placido al lavoro, serio e concentrato, ma al netto del suo trattamento ha la rara capacità di spingerti a superare i tuoi limiti.

 

Una cosa esaltante. Michele è giusto, ma sa essere duro. Interpretare la sua riduzione pirandelliana è stato anche faticoso. Non posso dire che prima di partire immaginassi una gita premio. Non giudico mai il metodo di un regista sul piano professionale. Prima lo provo. Poi valuto”.

 

L’ha valutato?

Ha presente remore, incertezze, imbarazzi e pippe mentali di varia natura? Ecco, con Placido non esistono. Non ti dà scelta. Lui ti dice di fare una cosa e tu la fai.

 

Ha apprezzato?

Molto. Placido mi è stato di enorme aiuto. L’umiltà è un’esperienza terapeutica. Una fatica che splende giorno dopo giorno.

AMBRA ANGIOLINI E BRANDO GIORDANI FOTO ANSA AMBRA ANGIOLINI E BRANDO GIORDANI FOTO ANSA

 

Lei la gavetta l’ha fatta.

Ma guardi, io non sapevo niente. Prima di imparare a pronunciare Nabokov ci ho messo anni.

 

L’ex presunta Lolita del pomeriggio tv ha letto Lolita?

Io sì, quelli che mi insultavano dandomi della giovane puttana sicuramente no. La violenza dei commenti era inaudita. Gianni Boncompagni mi invitava a relativizzare: “Leggi almeno sei giornali, non fermarti sui titoli e soprattutto non fossilizzarti su una singola definizione”.

 

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Non era facile.

E no che non lo era. All’inizio mi incazzavo, non capivo, mi offendevo e pensavo: “Lolita sarai tu”. Poi ho letto Nabokov e ho iniziato a volerle più bene, a osservare quel nome proiettato nell’immaginario con più tenerezza e meno terrore. Anche se sapevo che non ero come lei e mi addormentavo benissimo anche vent’anni fa, in fondo quella robaccia che mi pioveva addosso mi ha molto migliorata. I giornali scrivevano e io imparavo a ragionare con la mia testa. Cercavo di capire dov’era il problema e stabilivo il modo di risolverlo.

 

Con Achille Occhetto trasformato in diavolo e Silvio Berlusconi angelicato si guadagnò l’accusa di aver influenzato la campagna elettorale del ‘94.

Mi addebitarono la disfatta della sinistra italiana, una cosa grottesca, enorme e soprattutto falsa. All’epoca Berlusconi era già Berlusconi e Occhetto era sempre stato Occhetto. (Sorride)

 

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Ma l’idea fu sua?

Ci volle proprio un sacco di malafede per attribuire a una quattordicenne di periferia un’intenzione simile. Fino al giorno prima ero la ragazza subornata da Boncompagni. La fanciulla ignorante che sbagliava i congiuntivi. La marionetta inconsapevole. Ma in quel momento e solo per quell’istante, mi ero saputa trasformare in sottile politologa. Nessuno nutrì dubbi sul fatto che la frase incriminata fosse farina del mio sacco e invece, ovviamente, non lo era. Berlusconi stava per diventare il re del mondo e la colpa era mia.

 

Di politica parlò ancora a Piazza Pulita.

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Ancora pago le querele. Settemila euro a botta. Una cosa incomprensibile. Avevo un contratto da interprete e leggevo i monologhi di Vittorio Zincone. Non c’entravo niente con la linea editoriale , non scrivevo nulla, né mi facevo carico dei contenuti del programma. Anzi, a caratteri cubitali, sul contratto c’erano postille mascherate da esplicite minacce: “Se la ragazza tocca una sola riga, le tagliamo una mano”.

 

Sia come sia, le querele me le sono beccate. Io il denaro lo do anche volentieri, sono sempre per la patria, io. Però pur avendo un ottimo rapporto con Zincone e stimando Formigli, quel periodo fu assurdo. Mi insultavano per strada, le mogli dei tassisti romani minacciarono una marcetta dalle parti di casa mia. “Venite” dissi, “Il caffè ve lo offro volentieri”. Però se mi devo far insultare, i testi me li scrivo io. In assoluto non ho paura di parlare di politica. Quando Santoro mi ha invitato in trasmissione sono andata e lì ho esposto il mio punto di vista. Il mio però.

 

Come la scoprì Gianni Boncompagni?

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Per puro caso. Facevo danza classica e lessi un bando che invitava giovani ragazze a presentarsi a un provino per un programma tv.

 

Il provino?

Un pezzo di Flamenco rivisitato con sottofondo dei Queen, una cosa folle. Mi ero preparata come dovessi andare a un saggio accademico e mi ritrovai piccola Bridget Jones a cui non dicono che è cambiato il tema della festa. Alla fine superai qualche ostacolo e mi ritrovai tra le ragazze scelte. Al momento di lasciare l’indirizzo e il numero di telefono mi passano un pennarello. Ha il tratto grasso e il mio 5 sul foglio diventa un 6. Mi chiamano per una settimana. Risponde sempre un medico. Giura di non avere figlie che si chiamino Ambra. Poi alla fine, Clelia Fradella, la mia insegnante di danza, incredula per l’esclusione cerca i responsabili del programma. Chiede spiegazioni e scopre l’arcano.

 

Si ricorda ancora il nome.

AMBRA ANGIOLINI - Copyright PizziAMBRA ANGIOLINI - Copyright Pizzi

Il colore dei capelli, le atmosfere, tutto. È inutile negarlo, la mia nascita è quella e le soddisfazioni o le bastonate che sono arrivate dopo, arrivano comunque da lì. Quello è uno strano percorso che non si è ancora concluso.

 

La turba?

È la vita e comunque con Gianni Boncompagni ho conservato uno splendido rapporto. Me ne andai così, da un giorno all’altro. Sapevo che dovevo provare a essere qualcosa che andasse oltre la sua figura. Mi aveva insegnato molto, ma volevo camminare da sola. Così gli diedi una delusione. “Vado da un’altra parte” dissi solenne, ma in realtà l’altra parte non sapevo neanche dove fosse.

 

Non avete più lavorato insieme?

Gli voglio bene, ma per dignità e coerenza, anche se ci sono stati momenti in cui ne avrei avuto un gran bisogno, non sono mai più tornata a chiedergli un’opportunità. Non mi sembrava sano. La porta si era chiusa, la porta non si sarebbe riaperta.

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Cosa le aveva insegnato esattamente Boncompagni?

A non credere mai alla tv. A relativizzare la fama. A considerare il successo poco più di un gioco inoffensivo. “Non abbiamo il potere di evitare le guerre e non salviamo la vita alle persone” diceva. “Quindi goditela, con leggerezza”.

 

Ci è riuscita?

Tutto il bene e tutto il male di quell’esperienza è venuto su molto dopo. Lì per lì accadevano cose surreali. Un giorno apro il giornale e vedo che il critico di turno rade al suolo la prima di un mio spettacolo.

 

Quanti anni aveva?

Oddio, mò sembro una vecchia che non si ricorda. Mi pare venti, ma 20 o 19 cambia poco. Il problema è che per ragioni tecniche quella sera lo spettacolo non era andato in scena. C’era pregiudizio, a essere ottimisti.

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Lei lo è?

 Vorrei esserlo come lo era mio nonno. Uno che sapeva guardare il lato bello della vita. La prima volta che dormii nel lettone dei nonni mi accorsi che lui era alto quanto me. Gli chiesi spiegazioni e mi rispose che gli si erano accorciate le gambe per aver detto troppe “bucie” a sua moglie. A quel grado di fantasia non arrivo, ma ho imparato a difendermi dalle critiche gratuite. Le altre, quelle oneste e anche quelle un po’ disoneste, le accetto. Contengono sempre qualcosa di vero.

 

E quelle gratuite?

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Quelle sono soprattutto sui social network, ma mi guardi: mi chiamo Ambra Angiolini e ce l’ho fatta. Mi sono disintossicata. Non covo più il perverso piacere di andare a vedere cosa scrive corvo 77 o lucciola 81 su Twitter. Se mi danno della stronza o della fallita non è più affar mio. Se mi devo mandare a fare in culo lo faccio da sola, almeno mi stimo e almeno in parte, so chi sono. Sui teppisti da tastiera mi piacerebbe girare un cortometraggio.

 

Con le insolenze telematiche al centro della trama?

C’è una violenza che confina con l’amore. Non è il semplice commento su qualcosa che non ti piace, ma l’aggressività che inquieta. La voglia non di criticarti sanamente, ma di umiliarti, offenderti, massacrarti senza mai motivare nulla. Ma perché in due parole mi devi dire cosa pensi di me? Non lo voglio sapere, non me ne frega niente e infatti un mio profilo Twitter non ce l’ho. Almeno sono rimasta imprevedibile.

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La consola?

Avrò respirato 3 volte negli ultimi 25 anni, ma alla mia capacità di improvvisare non rinuncio. Tanto il pericolo di montarsi la testa non esiste. Quando vinsi il David di Donatello ero spaventatissima. La gente che abita i luoghi meravigliosi e un po’ disumani dello spettacolo un po’ la conosco. Così, aspettandomelo, apro lentamente i giornali e vedo un bel pezzo tutto su di me.

 

Titolo?

“Il David ad Ambra vergogna d’Italia”, una cosa così. Avveniva sette anni fa, non ai tempi di Non è la Rai. Non era cambiato nulla. Che me la monto a fare la testa? Per poi soffrire due volte? Lo svolgimento dell’articolo era conseguente all’assunto e finiva per mettere in dubbio che oltre ad attrice, potessi essere pure madre.

 

A lei, che era stata figlia a sua volta.

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L’ultima di tre, arrivata a nove anni dall’ultimo. Un bell’imprevisto, anzi bello lo dico io. Se domanda a mia madre magari le risponde un’altra cosa.

 

Quando era bambina la tv cosa rappresentava?

Solo un ingombrante elettrodomestico sistemato per comodità in camera dei miei genitori. Della tv non ci importava niente, la schermo era la piazzola sotto casa, giocavamo con gli amici, si faceva gruppo e i vicini suonavano a tutte le ore. Driin, driin: “Non è che possiamo lascià le creature per un paio d’ore?”

 

Ci si dava una mano e c’era una comunità di persone che considerava ovvio aiutarsi reciprocamente. Mio padre vendeva scarpe a Porta Portese, aiutava un antiquario a restaurare i mobili e poi in età matura si reinventò operaio in una ditta alimentare. Oggi ti dicono: “Fai un figlio? Sei matto? E il lavoro?”. Lui si dava da fare e metteva al mondo i suoi figli con fiducia perché sapeva di poter contare su una vera solidarietà. Gli amici, i parenti, la gente del quartiere. Noi in qualche modo ce la saremmo cavata. Era proprio il contesto a essere diverso.

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Irrimediabilmente diverso da oggi?

Il problema è che siamo diventati tutti dei solisti e avendo molta paura dell’altro, viviamo in una terrorizzata solitudine consultando i possibili profili criminali dei vicini di casa come fossimo davanti a un eterno plastico del nostro orrore. Siamo fragili, sospettosi, deboli. Affidarsi alla sola solitudine non è mai una buona cosa. Ci stiamo scavando la fossa da soli.

 

Siamo stanchi?

Stanchi e abituati a essere circondati dal pessimismo. Tutto è merda, ruba chiunque e il Paese, pensiamo, non si risolleverà mai. La depressione di fondo e la sfiducia che si respirano in Italia, sicuramente incidono sulla felicità dei cittadini. Mi sembra che abbiano tutti meno voglia di crederci, quando ero bambina questo tema non osavi neanche portelo. Per necessità, incoscienza o eredità familiari, si credeva che le cose sarebbero potute andare meglio e si tirava avanti anche nella fame. Con molta più allegria, mi sembra.

 

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Lei sembra allegra, affronta ancora le giornate con il profilo spettinato di Mafalda e lo spirito leggero che denunciava da ragazzina?

Ci provo e tendo sempre a indagare sul percorso apparentemente meno semplice. Se c’è un bivio, per indole scelgo sempre la strada più impervia. L’unico precetto che ho imparato davvero a memoria è non lamentarmi mai.

 

Perché?

Ma perché è una lagna mortale, tutto un rimpiangere, un piagnucolare sulle occasioni perse. “Ah, perché quel colpo di culo non è capitato a me?”. Dù palle. Al limite , forse per masochismo, mi accade il contrario.

 

Ci racconta in cosa consiste il contrario?

Cerco sempre di convincere chi mi offre un lavoro a soppesare la mia inadeguatezza e ad abbandonarmi: “Vi siete sbagliati, scegliete un’altra, io non vado bene”.

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Non sarà una scelta figlia del suo senso di colpa?

Potrebbe anche essere senso di colpa, se non fosse che a me ’sto senso di colpa mi ha veramente rotto le palle. È una scusa, uno schermo puerile. Una di quelle giustificazioni universali che ti riparano dalle responsabilità: la società, i genitori, il destino. Cazzate. Bisogna avere coraggio e cercare di mantenere vivo quel che c’è di speciale in ognuno di noi. Sforzarsi per poi andare lontano. Quando vado a correre dopo cinque minuti vorrei mollare e buttarmi per terra. Poi continuo, dopo 20 minuti sono in paradiso. Lontana. Felice.

 

Ha detto che le piacerebbe se ogni tanto glielo chiedessero. Rimediamo qui. È felice?

Mi fa piacere che qualcuno si interessi anche all’interiorità e non solo alle stronzate. I miei amici hanno imparato ad andare oltre l’obbligata formuletta del “come stai?”. Che è anodina e non trasmette nulla. Chiedere a qualcuno se è felice presuppone altre basi di verità.

 

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A proposito. Quando un paio d’anni fa attraversò un difficile momento, invece di nascondersi, lo fece sapere a tutti.

Condividere con gli altri una difficoltà ha sempre qualcosa di nobile. Sapere che una persona nota ha affrontato gli stessi ostacoli può alleviare l’angoscia di qualcuno. Nascondersi è inutile. È bello quando le persone celebri evadono dallo loro sfera per parlare di qualcosa di vero. Lo fece anche Fiorello. Disse che aveva provato la cocaina. E se gli venne voglia di raccontarlo, probabilmente, accadde perché liberarsi di un peso del passato e renderlo pubblico, significa anche chiudere per sempre quella pagina del proprio libro.

 

Lei le ha chiuse tutte?

Dovrei andare dall’analista ogni 5 minuti, ma ora faccio altro e sono sulla buona strada.

 

  

 

 

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