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CI VUOLE UN FISICO BESTIALE - IL NOBEL ANDRE GEIM: “IL GRAFENE L’HO SCOPERTO ROVISTANDO NELLA SPAZZATURA MA PUÒ CAMBIARE IL MONDO COME SUCCESSE CON LA PLASTICA – “NON SONO UN FAN DI HAWKING: DICE COSE SENZA PROVE, ORMAI FA L’INDOVINO”
Enrico Franceschini per “la Repubblica”
Le pareti d’ingresso sono ricoperte da una di quelle lunghissime equazioni che si vedono talvolta sulle lavagne degli scienziati: numeri, lettere di vari alfabeti, parentesi tonde, quadre, graffe, radici quadrate. L’equazione è suddivisa in “forze”, “materia” e “Higgs”, immagino un riferimento al celebre bosone, sebbene non abbia la minima idea di cosa davvero sia.
Entrare nella facoltà di Fisica della Manchester University, una delle migliori del mondo, dove hanno insegnato Alan Turing, decifratore del Codice Enigma, e l’astrofisico Brian Cox, metterebbe soggezione a chiunque. Se poi a entrare è uno che in fisica, al liceo, non ha mai capito nulla, la situazione assume toni tragicomici.
Diventa un’impresa chiaramente disperata quando, salito al secondo piano del venerabile istituto, varcato il corridoio intitolato “gruppo della materia condensata”, bussato alla porta del professor Andre Geim, il malcapitato visitatore lo saluta in russo, sperando di guadagnare così benemerenze, visto che fino ai trentadue anni d’età il futuro premio Nobel e “padre” del grafene ha vissuto in quella che allora era chiamata Unione Sovietica, beccandosi invece una gelida, spazientita risposta: «Mi dica dunque lei in che lingua vogliamo condurre l’intervista, inglese, russo o italiano?».
Fortunatamente, quello del Nobel venuto dal freddo non è gelo: è humour, un umorismo russo-ebraico-tedesco-inglese, frutto delle diverse radici ed esperienze di una vita straordinaria. Non sempre riconosciute come spiritosaggini, le sue battute gli hanno procurato qualche incomprensione, all’inizio della carriera accademica: ma stavolta lo scienziato prepara un cappuccino, ne offre uno al suo interlocutore (declino – ancora troppa soggezione) e si scioglie in un amabile sorriso.
Paragonato a Newton (lo scopritore della gravità) e a Einstein (l’inventore della relatività), a cinquantasei anni Andre Geim ha tali e tanti estimatori che si predice di Nobel farà in tempo a vincerne un altro, per una seconda scoperta. La prima sarebbe sufficiente a garantirgli una fama imperitura: i suoi studi sul grafene, miracoloso materiale che ha lo spessore di un atomo ma la resistenza di un diamante e la flessibilità della plastica, promettono di rivoluzionare il mondo come l’acciaio e appunto la plastica hanno fatto in precedenza.
L’eureka moment, il momento della scoperta, come ha ricordato lui stesso tante volte, venne quasi per caso, tirando fuori dal cestino della spazzatura i rimasugli di un esperimento che credeva finito male. Ma prima sono venuti tanti anni di studi e ricerche, che Geim continua a fare, insieme alla moglie, fisico pure lei, con l’ufficio di fianco al suo.
Gli racconto di essere arrivato a Mosca come corrispondente di Repubblica, nel 1990, proprio quando lui stava lasciandola come emigrante. «Tutti i gusti son gusti», commenta, di nuovo un po’ acido, tra un sorso di cappuccino e l’altro. Ma lui perché se ne andò?
Ricordo che se c’era una cosa che funzionava, in Urss, era la comunità scientifica, in particolare la fisica, il ramo legato alle conquiste spaziali e all’industria militare. Geim, per di più, viveva e lavorava in una delle “cittadelle della scienza”, luoghi riservati ai migliori studiosi, con più agi che nel resto del paese.
«Se avessi saputo che cosa mi aspettava in Occidente, me ne sarei andato ancora prima», risponde. «Non mi riferisco a denaro o comfort personali, ma alla mia produttività come scienziato, che diventò di colpo molto più alta. È vero, la scienza aveva un posto di rilievo in Urss. Ma c’è sempre stato un problema di efficienza. Il programma spaziale costava agli Stati Uniti, all’epoca della guerra fredda, l’un per cento del Pil. All’Urss costava il cinquanta per cento.
E nei primi anni Ottanta, quando ho cominciato il mio lavoro di fisico, a Mosca era già iniziato il declino che ha portato un decennio dopo al crollo dell’Unione Sovietica, quindi le cose funzionavano ancora peggio, anche per noi scienziati. Io volevo fare ricerca. Per la ricerca servivano fondi ed efficienza di costi. Il posto per farla, mi resi conto, non era la Russia».
Gli domando come fu l’impatto con l’Inghilterra. «Facile e difficile al tempo stesso. Facile per le succitate ragioni: tutto funzionava bene e i fondi alla ricerca erano generosi. Difficile per problemi linguistici, il mio inglese era povero, e anche per qualche incomprensione culturale. Ricordo una cerimonia di benvenuto in cui lo speaker si disse felice di avere finalmente un russo in questa facoltà. Un russo, gli chiesi io, e chi è? Ma è lei, mi risposero ridendo.
Solo che io non mi sono mai sentito russo. In Russia ero schedato fin dal passaporto come “tedesco”, un tedesco del Volga, come ci chiamava Stalin, una delle tante minoranze discriminate dell’Urss. E inoltre un ebreo, per parte di nonna materna. Sono cresciuto con due insulti nelle orecchie: nazista e giudeo, non male come accoppiata. Potevo sentirmi sovietico, ma l’Unione Sovietica ben presto non ci fu più. E allora cos’ero?».
Un europeo? «Sì, ma è un’identità culturale, non nazionale. Gli Stati Uniti d’America sono cementati da una lingua comune, l’inglese. L’Europa purtroppo no, e ci vorranno generazioni prima che diventi davvero unita». Non resisto a chiedergli il suo giudizio su Gorbaciov: ha fatto bene o male al proprio paese? «So che ha molti ammiratori all’estero, ma cercate di capire perché ne ha pochi in patria. È stato un pasticcione. Ha creduto di poter fare la democrazia rapidamente e poi di ottenere una specie di Piano Marshall dall’Occidente per fare anche il capitalismo.
Doveva fare il contrario, invece, come la Cina, prima l’economia di mercato, poi la transizione alla democrazia, e oggi la Russia sarebbe più democratica di com’è. Ora c’è Putin, che non piace all’Occidente, ma piace al novanta per cento dei russi. Chiedetevi il perché anche di questo. E lasciate passare cinquant’anni.
Poi vedrete che la Russia sarà più civile e democratica. Il guaio dell’Occidente è che pensa di poter imporre il proprio modello, costruito nell’arco di secoli, a qualsiasi paese in pochi mesi o anni. E passi imporlo alla Russia: vorrebbe imporlo anche all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria. Una follia».
Gli dico che parla come Kissinger: forse dovrebbe scrivere anche di affari internazionali, non solo di fisica. Ma era la fisica l’oggetto del nostro appuntamento. Allora, pensa davvero che il grafene cambierà il mondo? Sospira. È una domanda stupida, lo sento, ma dovevo farla, è quel che l’uomo della strada (specie a cui appartengo) vorrebbe sapere.
«Il grafene ha stabilito un nuovo paradigma». Cioè? «Ha aperto un portone, una strada. Oggi si lavora su molti materiali che possiamo chiamare fratelli e sorelle del grafene, materiali di cui fino a poco tempo fa, fino al 2007, nemmeno conoscevamo l’esistenza. In sette anni sono stati fatti passi da gigante. Allora c’erano cento aziende che facevano ricerche sul grafene, ora ve ne sono tante migliaia. Ha sicuramente il potenziale di cambiare il mondo come lo ha cambiato la plastica».
Stephen Hawking, l’astrofisico che ha scoperto il Big Bang e i buchi neri, predice che vedremo fantastiche scoperte nei prossimi dieci anni. «Non sono un fan di Stephen Hawking. Lui ormai fa l’indovino e dice cose senza pezze d’appoggio. Io dico semplicemente questo: se lei prende una matita e tira una riga su un foglio, poi la ingrandisce un’infinità di volte con un microscopio, vedrà tracce di grafene. L’uomo ha avuto sotto il naso per cinquecento o mille anni questa scoperta che ora può cambiare il mondo, ma non se n’era mai accorto. Siamo circondati di potenziali scoperte simili. Dobbiamo solo imparare a vederle».
A proposito di cambiamenti, lei si sente cambiato dal Nobel? Geim prepara un altro cappuccino. Riflette. «No e sì. Sono la stessa persona di prima, uno scienziato, non mi sento più arrogante. Ma grazie al Nobel ho conosciuto tanta gente famosa, ricca e potente e ho così potuto scoprire che non sono persone molto intelligenti. Ecco questo forse avrei preferito non scoprirlo. La razza umana non è fatta di creature molto intelligenti. Io amo gli individui, ma non ho un gran rispetto della razza umana nel suo complesso».
Visto che non siamo animali tanto intelligenti e che abbiamo di fronte ogni tipo di problemi, il cambiamento climatico, il deficit di risorse energetiche, le guerre, le malattie, l’estremismo, lei pensa che sopravvivremo? «No». Altro sorso di cappuccino. Oddio, ma è una notizia spaventosa. «Non sopravvivremo nella nostra forma attuale», riprende. «Ci evolveremo in un’altra forma». Sospiro di sollievo (mio). «Ci stiamo già evolvendo. La nuova forma si chiama “società globale”. È una creatura infinitamente più complessa del vecchio Homo Sapiens. Gli esseri umani sono contenuti al suo interno come minuscoli atomi, come le molecole che compongono una materia.
Grosso modo l’Homo Sapiens è durato cinquantamila anni. Vedremo cosa diventerà questa nuova creatura, la società globale, tra altri cinquantamila anni. Non lo vedremo io e lei, ma i figli dei figli dei nostri figli». Anche il professor Geim ha una figlia, quattordicenne. Che consigli dà alla sua bambina? E ai bambini, ai ragazzi, ai giovani di oggi? «Un consiglio banalissimo. Per avere successo, bisogna lavorare duramente, molto duramente. Mia figlia va a una scuola privata qui a Manchester ed è una delle prime della classe. Qui si calcola tutto in percentuali, per cui lei sa di essere nel cinque per cento al top della scuola come risultati accademici. Ma per avere successo non basta, bisogna essere nei piani alti di quell’uno per cento al top».
Mi vengono in mente le tiger mom che costringono i figli a un’infanzia infelice di solo studio, ma il premio Nobel mi tranquillizza: «Mia figlia è una ragazzina normale, ha hobby, fa sport, gioca con le amiche. L’abbiamo portata con noi fin sul monte Etna e sullo Stromboli, l’estate scorsa, e si è divertita moltissimo. Avete vulcani e montagne meravigliose, in Italia ». A questo punto siamo diventati amici: il premio Nobel insiste di nuovo per offrirmi un cappuccino, scherza sulla burocrazia italiana e confessa che l’Amarone è il suo vino preferito. Mi sento come se avessi superato l’esame (di fisica). Sarei quasi tentato di chiedergli di spiegarmi, prima di andarmene, cosa diavolo è esattamente il bosone di Higgs.
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