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Lo chiamavano il "flagello di Dio" e il suo è un nome che, nonostante i secoli trascorsi, fa ancora paura, evoca distruzione e disperazione, violenza e follia senza senso. Tanto che Attila, condottiero degli unni nel V secolo dopo Cristo, si ritiene all'origine della caduta dell'Impero Romano d'Occidente, avvenuta nel 476 d.C.
Roma non ha retto, in sostanza, ai continui e ripetuti attacchi e alle orde barbariche che ne devastarono i vastissimi confini, facendo a pezzi intere popolazioni, lasciando sul terreno, dopo il passaggio delle sue orde, soltanto morte. Le frontiere romane si indebolirono e alla fine si sgretolarono. L'impero crollò.
Ma c'è uno studio che racconta un'altra storia. O, almeno, la racconta inserendo un elemendo non da poco, che getta una luce nuova. Attila non era un folle sanguinario che voleva conquistare e annientare, comandare e schiacciare: ma il risultato di una calamità naturale, combinata ad altri fattori, che non lasciò alternative.
Le incursioni unne nell'Europa centrale e orientale nel IV e V secolo dopo Cristo sono dunque storicamente considerate uno dei fattori chiave nella fine all'Impero Romano. Tuttavia, sia le origini degli Unni che il loro impatto sulle province tardo romane sono ancora poco conosciute.
Tanto che questo nuovo studio, The role of drought during the Hunnic incursions into central-east Europe in the 4th and 5th c. CE (Il ruolo della siccità nel corso delle incursioni unne nell'Europa centrale e dell'Est nel corso dei secoli 4 e 5 dopo Cristo) di Susanne E. Hakenbeck e Ulf Büntgen, del Dipartimento di Archeologia e del Dipartimento di Geografia dell'università britannica di Cambridge, grazie a nuova valutazione delle prove archeologiche, storiche e ambientali, avanza appunto nuove, inedite ipotesi.
I due studiosi sostengono che le siccità che si sono verificate tra il 430 e il 450 d.C. nell'area geografica dell'attuale Ungheria, abbiano avuto un ruolo chiave: non più la violenza apparentemente inspiegabile degli Unni, la loro folle sete di sangue - tanto che ancora oggi "unni" significa distruzione, invasioni barbariche e per indicare uno stato di calamità inarrestabile. Si sarebbe trattato, al contrario, di una strategia per far fronte agli eventi climatici estremi da valutare nell'ambito di un contesto più ampio dei cambiamenti sociali ed economici del periodo.
"Le fluttuazioni climatiche del periodo, in particolare le estati secche dal 420 al 450 d.C., hanno avuto con tutta probabilità un impatto sulle capacità di carico sia dell'agricoltura che dei pascoli, almeno nelle aree che non si trovavano direttamente nelle pianure alluvionali ricche di umidità", scrivono in due studiosi.
"Le fonti storiche ci dicono che la diplomazia romana e unna era estremamente complessa con accordi reciprocamente vantaggiosi, almeno inizialmente, con il risultato che le élite unne ottenevano l'accesso a grandi quantità di oro. Questo sistema di collaborazione si interruppe negli anni 440, portando a regolari incursioni di terre romane, crescenti richieste di oro e, a un certo punto, una richiesta di una striscia di territorio lungo il Danubio "larga cinque giorni di viaggio". Fatti che coincisero con la crescente aridità nel bacino dei Carpazi. Se la datazione di questi eventi è affidabile, allora le più devastanti incursioni unne, nel 447, 451 e 452 d.C., avvennero durante estati estremamente secche. Ciò solleva la questione se le offerte ambientali alterate abbiano provocato cambiamenti alla sussistenza, all'economia e forse anche all'organizzazione sociale".
Il metodo per misurare la siccità è quello di verificare i segnali biochimici negli anelli degli alberi. "I dati sugli anelli degli alberi ci offrono una straordinaria opportunità di collegare le condizioni climatiche all'attività umana anno dopo anno. Abbiamo scoperto che i periodi di siccità registrati nei segnali biochimici negli anelli degli alberi hanno coinciso con un'intensificazione dell'attività di incursione nella regione", ha spiegato il professor Büntgen.
Le popolazioni furono addirittura costrette a cambiare dieta per la situazione di siccità scoperta fatta attraverso analisi isotopoche sugli scheletri dell'epoca. "Se la scarsità di risorse divenne troppo estrema, le popolazioni stanziali potrebbero essere state costrette a spostarsi, diversificare le loro pratiche di sussistenza e passare dall'agricoltura all'allevamento nomade di animali", ha sottolineato la professoressa Hakenbeck.
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