COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"
Il sovrintendente capo Pasquale Campanello aveva finito il suo turno nel carcere di Poggioreale quando lo uccisero con una raffica di 14 proiettili e altri 4 sparati quasi a bruciapelo, l’8 febbraio 1993. A 33 anni d’età, era la terza vittima della polizia penitenziaria ad appena otto mesi dall’introduzione del «41 bis», il cosiddetto «carcere duro» per boss e gregari delle organizzazioni criminali.
Prima di lui era toccato all’agente Michele Gaglione e al sovrintendente Pasquale Di Lorenzo; dopo fu la volta dell’assistente capo Luigi Bodenza, dell’agente Carmelo Magli e dell’agente scelto Giuseppe Montalto, assassinati tra il ’93 e il ’95 in Sicilia, Campania e Puglia. Bersagli pressoché sconosciuti dell’attacco mafioso allo Stato proseguito oltre le stragi, quando le prigioni erano diventate uno dei fronti della guerra scatenata per ricattare le istituzioni.
«Campanello lo conoscevo bene, una persona seria e ligia al dovere», ricorda il dirigente superiore Augusto Zaccariello, direttore del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria nato 25 anni fa. Anniversario che sarà celebrato oggi e domani in due appuntamenti, in Parlamento e presso la Scuola del Corpo intitolata a Giovanni Falcone, con l’intervento del ministro della Giustizia, per ricordare un’esperienza cominciata col Battaglione mobile degli agenti di custodia e poi col Servizio coordinamento operativo della polizia penitenziaria, proprio nel periodo delle bombe mafiose.
«Quegli omicidi furono la reazione di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta al “41 bis” — racconta Zaccariello —. Ora non sparano più, preferiscono altre strategie silenti di fronte alle quali abbiamo affinato capacità di osservazione e analisi che per ovvie ragioni non posso disvelare».
[…] «Quando presi servizio, all’inizio degli anni Ottanta — continua il direttore del Gom —, i capi continuavano a comandare anche dalle celle, arruolavano detenuti, creavano nuovi affiliati e mandavano ordini all’esterno attraverso i colloqui, la corrispondenza e altri sistemi».
Era il periodo del «Grand hotel Ucciardone», modello replicato a Poggioreale e altrove, a cui lo Stato decise di porre fine dopo gli eccidi di Capaci e via D’Amelio.
«Nottetempo i capimafia furono trasferiti sulle isole e in altri istituti di massima sicurezza — prosegue Zaccariello —, senza poter più comunicare con l’esterno, e proprio allora cominciò la guerra di retrovia che coinvolse la polizia penitenziaria in prima persona».
Dentro i detenuti la combattevano con la contrapposizione all’autorità, pur dovendone rispettare gli ordini, mente fuori si sparava sui «baschi azzurri» e si progettavano attentati, molte volte sventati dalle intercettazioni all’interno e all’esterno dei penitenziari.
Ricorda il direttore del Gom: «Le minacce che cominciarono ad arrivare nel corso degli anni Novanta, con gli arresti di quasi tutti i boss latitanti, potevano nascondersi in uno sguardo o diventare esplicite. Io stesso ho avuto la scorta e ho dovuto prendere precauzioni».
Dietro le mura delle prigioni, il confronto continuo con i detenuti al «41 bis» ha consentito di studiare differenze e mutamenti all’interno di mafia, camorra e ‘ndrangheta: «La diversità tra capi e gregari emerge dall’atteggiamento: rispettoso da parte dei primi, spavaldo e quasi di sfida nei secondi. Inoltre, mafia e ‘ndrangheta tendono a un maggior rispetto delle regole, a differenza dei camorristi».
Difformità che però evaporano nell’atteggiamento dei capi, soprattutto del passato: «Il camorrista Cutolo, che fumava sempre il sigaro, si rivolgeva al nostro personale limitandosi al buongiorno e buonasera, come anche Riina e Provenzano, o i capi della ‘ndrangheta».
Eppure, proprio dalle «chiacchiere» di Riina riferite dagli agenti del Gom sono nati un pezzo del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia e le successive intercettazioni con il compagno di ora d’aria; mentre dalle registrazioni dei fratelli Graviano non si è riusciti a sciogliere il mistero di come abbiano potuto avere due figli dalle rispettive mogli. «Quello resta un buco nero, e successivamente sono state adottate, nei confronti di tutti, misure di vigilanza e sorveglianza ancor più rigorose — spiega Zaccariello —.
Ma credo che l’aspetto più rilevante del nostro lavoro sia l’interpretazione di ogni parola ascoltata, e dall’analisi di ogni comportamento, attraverso cui è stato possibile comprendere i mutamenti nei rapporti tra clan o le strategie di singoli boss».
Da ultimo, quella di Matteo Messina Denaro, «dotato di una cultura inusuale», che anche rinchiuso fra quattro mura blindate dopo trent’anni di latitanza «non ha smesso di esaltare la sua capacità di nascondersi come un albero nella foresta». […] «dopo che la giustizia ha fatto il suo corso, il nostro compito è impedire che chi incuteva timore da libero continui a farlo dal carcere. Nel ruolo di ultimo presidio della sicurezza dei cittadini».
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