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Matteo Carnieletto per Occhidellaguerra.it
Sono giovanissime. I volti ancora da bambine di 11 e 12 anni. Sono le schiave del sesso di Bangkok e Pattaya. I minori fatti prostituire in Thailandia sono migliaia. La situazione, se mai si può fare una classifica dell’orrore, è ancora peggiore in Cambogia, dove i bambini sfruttati sono più di 20mila. Una piaga apparentemente insanabile, che colpisce i più deboli.
Molto spesso, i bambini vengono venduti dalle famiglie, come spiega a In Terris Chiara Cattaneo, responsabile dei progetti in Cambogia di Mani Tese: “Qui, le famiglie povere e disperate che si sono trasferite in città provenendo da aree rurali povere anche di mezzi di comunicazione, si lasciano facilmente convincere dal denaro e dalle false promesse di una vita migliore per i figli nella vicina Thailandia da parte di trafficanti alla caccia di parenti vulnerabili.
Ma il futuro dei bambini che lasciano la loro famiglia per la Thailandia è ben diverso da quello prospettato. Il loro sfruttamento può avvenire inizialmente attraverso l’accattonaggio o il lavoro domestico fino ad arrivare allo sfruttamento sessuale. Ma ci sono diversi gradi di consapevolezza sui rischi a cui si va incontro: ci sono famiglie che si affidano ad amici per mandare le figlie a lavorare come colf in una famiglia e poi invece a Bangkok sono sfruttate nei bordelli”.
Gli sfruttatori sono principalmente asiatici, come spiegano gli operatori di Mani Tese: “È difficile avere dei dati certi ed è difficile quantificare il fenomeno . Sicuramente non si tratta solo di turisti occidentali: a Poipet per esempio ci sono casinò in cui arrivano uomini thailandesi per il turismo sessuale locale. È così anche nelle zone marittime. La presenza di turisti occidentali, come anche gli italiani, rimane comunque ancora molto forte.
Per questo puntiamo molto sulle campagne di sensibilizzazione, perché si modifichi questo approccio alla donna e alla sessualità che è dominante, che non guarda all’età, alla condizione di vulnerabilità, ai traumi delle vittime e quindi richiede percorsi di rieducazione per i clienti. I turisti, essendo lontani da casa, si sentono più liberi, e coi soldi in tasca si sentono onnipotenti. C’è un grave problema culturale di fondo”.
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