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Daniele Autieri per “la Repubblica”
«L'economia di guerra è un'economia di cose. Di cose che mancano. Un'economia di pane, di latte, di sapone. Un'economia di fame». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, quell'economia di fame la conosce bene.
Classe 1932, studioso da sempre della società italiana e dei suoi cambiamenti, ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale e oggi misura quella distanza psicologica che la divide dalla rinnovata paura di un conflitto europeo. «Non possiamo ancora dire di essere piombati in un'economia di guerra - spiega - perché le cose ci sono. C'è la luce, anche se costa di più, ci sono i soldi, ci sono le banche aperte. La guerra non la vediamo, ma cominciamo a sentirla».
Siamo quindi lontani da un'economia di guerra?
«Potremmo cominciare a parlare di un'economia di guerra se oltre alla dimensione virtuale, bancaria, finanziaria, fossimo chiamati a confrontarci con una guerra cibernetica. Immaginate se all'improvviso non ci funzionasse più il telefonico o il computer. Per come è strutturata la nostra società, quella mancanza ci darebbe la percezione della guerra».
È la percezione che oggi ci fa paura?
«Viviamo una guerra immateriale, anche se ci accorgiamo che la benzina è aumentata come la bolletta. La guerra la sentiremo davvero quando dall'immateriale si passerà al materiale e cominceremo a percepire i disagi fisici».
Eppure ieri in Sardegna sono stati presi d'assalto i supermercati. La percezione ha effetti reali
«L'assalto al supermercato è una regola per il nostro paese, anche nelle prime fasi della pandemia è accaduto qualcosa di simile. La prima cosa che si fa durante un pericolo è andare al supermercato e riempirsi il frigorifero».
Nell'ultimo rapporto che il Censis ha prodotto parlate di "società irrazionale". Questo conflitto è un bagno di realtà?
«L'irrazionalità era figlia della società opulenta, la società dei talk show e della disinformazione contro i vaccini. L'arrivo della guerra ha ribaltato questo paradigma: in guerra tutti si aggrappano a un minimo di razionalità, nelle scelte, nei progetti, nei comportamenti quotidiani come l'attenzione al consumo di benzina. All'improvviso l'irrazionalità ha lasciato spazio alla razionalità».
Prima il Covid ora la guerra, come sta cambiando la società italiana?
«Il Covid è stato un evento drammatico, mentre gli effetti della guerra sono ancora tutti da vedere. Nell'immediato c'è una dimensione che ci tocca ed è quella dei profughi, una dimensione molto diversa dalla quella percepita nella pandemia.
La guerra sta compattando una fascia ampia della popolazione, che si offre per il volontariato e che si sente vicina alla gente che non conosce. Al contrario la pandemia aveva alimentato solitudine ed egoismo. Ognuno di noi era un pericolo per l'altro. Oggi questo sentimento sembra superato».
Lo spettro è una guerra che coinvolga l'Europa e quindi anche l'Italia. Gli italiani sono pronti a sopportare un'economia di guerra?
«L'Italia sarebbe in grado di sopportarla perché la dimensione fisica della povertà derivante dalla guerra l'abbiamo già vissuta e in misura decisamente peggiore rispetto a quella che vivremmo oggi.
Allora eravamo già poveri e quindi la guerra non aumentava in maniera significativa la nostra povertà. Oggi siamo ricchi e quello che chiamiamo l'indice del freddo percepito, ovvero la povertà percepita, sarebbe sicuramente più elevato di quanto non sia stato negli anni '40. Nonostante questo, sono convinto che tutto sommato ce la caveremmo».
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