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Antonio Sbraga per “IlTempo.it”
Continuano a moltiplicarsi i tentacoli delle mafie sulla Capitale, ormai avviluppata da una sorta di grande «Piovr(om)a», ramificata con ben 76 diversi arti prensili che allungano le mani sulla città. Tante sono le organizzazioni criminali che si dividono la torta degli affari all’ombra del Cupolone, come quantificato nel Rapporto «Mafie nel Lazio». Per il monitoraggio, effettuato dall'Osservatorio Tecnico-Scientifico sulla Sicurezza e la Legalità, «sulla Capitale e nella provincia di Roma incidono circa 76 clan. A Roma sono significativamente presenti e con un ampio potenziale criminale, le mafie cosiddette tradizionali (’ndrangheta, camorra e Cosa nostra)».
Ci sono «soggetti collegati alle cosche calabresi, che hanno fatto del territorio romano uno dei luoghi privilegiati di radicamento della propria presenza criminale». E storicamente presenti - si legge nel dossier - «sono gli Alvaro di Sinopoli e i Bellocco di Rosarno». Per la camorra, invece, «si va dal gruppo dei Mallardo, al clan Alfieri e Sarno, ai Casalesi e agli Iovine. Uno dei gruppi storicamente più attivi nella Capitale con un ruolo centrale, anche per l'interazione con altri clan che coesistono sul territorio, è quello riconducibile a Michele Senese» nome noto agli addetti ai lavori dell’inchiesta della procura di Roma denominata Mafia Capitale.
Ma la Città Eterna - stando sempre al corposo rapporto - ha anche «generato e sviluppato organizzazioni criminali autoctone. Queste diverse organizzazioni criminali si misurano e spesso integrano con altri due fattori, non secondari: da un lato la cosiddetta «malavita romana» (killer professionisti, pusher, rapinatori, gruppi criminali stranieri e di strada) e dall’altro un ampio sistema di reti di corruzione che attraversa diversi segmenti del tessuto socio-economico romano».
Uno «scenario criminale complesso», annotano gli estensori dello studio, che è però silenziato da una perdurante «pax mafiosa garantita dai clan della 'ndrangheta, della camorra e, sebbene meno evidenti, dalle famiglie di Cosa nostra. Le organizzazioni criminali hanno contezza dell’esistenza l’una dell’altra e dei diversi settori del mercato legale e illegale in cui operano» ma preferiscono non farsi la guerra.
Una tregua che dura dagli anni '80 perché, come ha spiegato il procuratore capo Giuseppe Pignatone, «a Roma ci sono soldi per tutti e non c'è bisogno di uccidere; Roma non è una città in mano alla mafia ma sono presenti varie organizzazioni di tipo mafioso. È una città troppo grande per una sola organizzazione criminale di questo tipo e quindi si impone una convivenza pacifica».
Anche perché tutti i tipi di clan hanno «individuato nel mercato romano, già da alcuni decenni, la migliore piazza per gli affari». Non solo droga, ma usura, riciclaggio e l’intera filiera da codice penale. Tuto ciò avviene «in un contesto economico così ampio e variegato, in cui operano già altre imprese criminali che commettono diversi reati di natura economica, i capitali mafiosi possono muoversi, mescolandosi e confondendosi, con minore probabilità di venire rintracciati».
QUARTIERI SOTTO CONTROLLO
«Nei quartieri come San Basilio, Tor Bella Monaca e la Romanina si rileva un controllo del quartiere da parte delle mafie e delle organizzazioni autoctone di Roma». Ma nel resto della Capitale «sino ad oggi non è stato riscontrato un generale controllo del territorio da parte dei clan; l'unico precedente in questa direzione, ha riguardato negli ultimi anni l'area del litorale romano».
LA MAFIA LOCALE
Però c'è stata «la scalata di una mafia locale dalla base della piramide criminale (recupero crediti, estorsioni e usura) sino ai vertici di quella economica e politica, senza incontrare grandi ostacoli e potendo contando sul potere di intimidazione, dunque sul «metodo mafioso». Il rapporto con il mondo dell'imprenditoria rappresenta per le mafie a Roma una piattaforma con effetto moltiplicatore ben evidenziato dall'indagine Mondo di mezzo».
LA MORSA DELL'USURA
Per la Direzione nazionale antimafia la «drammatica situazione (del tessuto socio-economico romano, ndr) sul versante criminale comporta, da un lato una sempre maggiore diffusione dell'usura e delle conseguenti estorsioni, dall'altro rappresenta un «terreno da arare» per la criminalità organizzata, in grado di immettere grosse liquidità (provenienti da reato) nel bilancio delle imprese in difficoltà, riciclando così capitali illeciti ed inserendosi in modo subdolo e insidioso, senza necessità di esplicite minacce, nella gestione di imprese sane, per poi acquisirne il controllo.
Si assiste cioè all'ingresso del socio mafioso nell'azienda, al dichiarato scopo di apportare liquidità ma ben presto trasfuso nello spossessamento della stessa. In alcuni casi gli imprenditori divengono fiancheggiatori delle organizzazioni criminali, prestandosi a svolgere attività illecite di varia natura come la funzione di prestanome o, addirittura, rendendosi disponibili ad operare nel settore dello spaccio degli stupefacenti per estinguere i debiti».
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