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COME SQUARTARE I PROPRI FIGLI E ANDARE A VEDERE LA PARTITA - “DOPO AVER STERMINATO LA FAMIGLIA, CARLO È VENUTO DA NOI: BEVEVA LA SUA BIRRETTA, ESULTAVA PER I GOL, PARLAVA DI CALCIO, NESSUNA STRANEZZA”

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Fabio Poletti per ‘La Stampa’

 

Nemmeno a loro aveva raccontato la sua ossessione. Neanche a Carlo, Marco, Alessandro, Andrea, Simone, Ivan, Enzo e gli altri amici del bar Candinski qui a Motta Visconti aveva raccontato della donna che lavorava con lui nell’ufficio al quarto piano giù ad Assago Milano Fiori di cui si era invaghito e che per la quale - inseguendo la sua fantasia solitaria - Carlo Lissi ha fatto quello che ha fatto.
 

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«Per noi è sempre stato il Carlo che giocava a basket all’oratorio... Attaccatissimo alla Cristina e ai due bambini... Sabato mattina è passato qui davanti con Gabriele nel passeggino... Chi lo sa cosa gli è scattato nella testa...», non capisce Marco Candi dietro al bancone del Candinski bar di via Don Milani, dove il suo amico trentunenne pure lui che ha sterminato la famiglia, inzuppava i sogni nel cappuccino insieme al cornetto, parlava del niente davanti alla birretta dopo l’ufficio, sognava il dolce di un’altra vita prima dell’amaro con cui chiudeva la giornata prima di tornare nella villetta rosa dove la luce è rimasta accesa.
 

La vita di Carlo Lissi è una linea dritta fino all’altra sera. A 19 anni si diploma all’Itc Bordoni di Pavia voto 82 centesimi, nel 2002 inizia a lavorare alla Wolters Kluwer di Assago come tecnico informatico, nel 2008 sposa Cristina, nel 2009 nasce Giulia, nel 2012 arriva Gabriele, due mesi fa mette gli occhi su Federica una sua collega che non gli da spazio nemmeno per un millimetro, sabato sera compie la strage.
 

Poi va a vedere la partita con gli amici del bar a casa di Carlo Caserio dall’altra parte del paesone in una villetta con i mattoni rossi a vista il giardino ben curato tapparelle e serrande abbassate. 


 

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Di alibi nella sua vita assai ordinaria Carlo Lissi deve averne fatto una collezione. Fino a convincersi che Federica fosse la donna giusta per lui. La sua collega della quale si era invaghito mesi fa. Lei che non gli aveva lasciato spazio nemmeno per un equivoco, altro che amore. Nella notte, dopo essere stata richiamata in fretta dalla Svizzera dove si trovava per i fatti suoi, anche lei ha dovuto raccontare sgomenta del suo collega tre volte assassino: «Si vedeva che era interessato a me... Qualche volta era pressante ma non ci badavo... Da pochi mesi sono andata a vivere con il mio fidanzato... Per me era solo un collega, non capisco cosa si fosse messo in testa».

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Lui si era messo in testa un mondo di illusioni. La volta che lei gli aveva regalato una torta per il compleanno di Giulia aveva fotografato il dolce e lo aveva messo su Facebook. In ufficio nessuno si era accorto di questa sua ossessione. Un’impiegata al quarto piano di questa multinazionale con 500 dipendenti che occupa un’intera palazzina mantiene la consegna del silenzio: «Siamo esterrefatti. Lissi è impiegato come validatore software».
 

Punto. Perchè non ci sarebbe altro da aggiungere su quest’uomo che ha sterminato la famiglia pianificando l’omicidio con il calendario del Mondiale e ha immaginato di rifarsi una improbabile nuova vita con la lama di un coltello.
 

Don Alessandro all’oratorio di San Luigi se lo ricorda bene: «Un ragazzo come tanti... Veniva qui con gli amici a giocare a basket. Ma la vita di oratorio la faceva soprattutto Cristina prima che arrivassero i bambini». Lui, a parte il lavoro e i figli, ai quali stava costruendo la piscina, sembrava non avere altri orizzonti.
 

«Se faceva tardi la sera parcheggiava la moto in fondo alla strada per non svegliare i figli», racconta la signora Enza che abita la villetta di fronte. Tranquilla come tutte le villette assai curate di questa strada ora affollata di giornalisti e telecamere. Andrea, allo Zymé bar di Besate dove Carlo Lissi andava ogni tanto con gli amici, lo ricorda come uno tranquillo: «Sabato sera c’erano qui altri suoi amici. All’inizio pensavo che ci fosse pure lui. Sa con tutta quella gente. Ma ho capito subito che non poteva essere una rapina...».

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Magari è vero, ma nessuno aveva capito che Carlo il ragazzo tranquillo che con gli amici andava alle prove dei Maripensa la rock band con qualche pretese dei suoi amici potesse aver fatto quello che ha fatto. Dicono che ai carabinieri abbia chiesto «il massimo della pena». Ma la pena massima alla fine è quella della zia di Cristina: «Cosa devo dire? Lei e i bambini non ci sono più. La giustizia faccia quello che deve fare, ma loro non ci sono più».