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Paolo Colonnello per “la Stampa”
Se a indagare sulla morte di Yara Gambirasio non ci fosse stata l’ostinazione di alcuni investigatori e l’eccezionalità di un’inchiesta durata quattro anni, il mistero della morte di questa tredicenne di Brembate, tutta casa e palestra, scuola e chiesa, non sarebbe mai stato rivelato.
Invece, 18 mila prelievi di Dna, un centinaio di testimoni ascoltati, confronti e controlli incrociati su mezzi di trasporto, telecamere, frammenti di tessuto, false piste e la scoperta di una paternità segreta, hanno prodotto alla fine la ragionevole certezza che ad ucciderla - sebbene incidentalmente, nonostante tre colpi alla testa e una dozzina di coltellate, nessuna mortale -
bossetti moglie dialogo in carcere 3
sia stato quell’omino biondo con il pizzetto ossigenato e una vita anonima che questa mattina si presenterà in un’affollatissima aula della Corte d’Assise di Bergamo chiedendo più l’attenzione delle telecamere che quella dei giudici, come annunciato in una lettera «perché non ho nulla da nascondere».
La prova regina
Massimo Bossetti, detto Massi, 44 anni, tre figli, una bella moglie (ultimamente in bikini sulla prima pagina di un settimanale), partita Iva e villetta d’ordinanza, dal 16 giugno di un anno fa vive in una cella del carcere di Bergamo con un’accusa da ergastolo che i suoi difensori contano di smontare cercando di far cadere quella che finora è stata considerata la “prova regina”, ovvero un frammento di Dna ritrovato sulle mutandine e sui leggins di Yara che corrisponde alla traccia biologica del muratore, unica ad avere una corrispondenza di 21 cromosomi su 21 tra miliardi di miliardi di miliardi di individui.
Difficile attaccare una prova del genere, sebbene così minuscola da essere considerata irripetibile e con un aspetto risultato controverso per la differenza rilevata tra il Dna nucleare, ovvero al centro della cellula, e quello mitocondriale, cioè periferico, delle cellule analizzate. Un aspetto fondamentale secondo gli avvocati, irrilevante secondo gli esperti del laboratorio di genetica forense di Pavia e per i vari giudici, dal gip al tribunale del riesame fino alla Cassazione, cui si sono rivolti via via i legali per chiedere che Bossetti venisse scarcerato.
Non c’è solo il Dna
Perché se dovesse cadere la prova numero uno, a quel punto per le difese sarebbe facile ottenere un effetto domino su altre prove e indizi. Che non sono pochi e abbastanza univoci. E colgono le contraddizioni macroscopiche emerse dagli interrogatori di Bossetti, il quale, per inciso, deve anche rispondere di calunnia per aver cercato di accusare dell’omicidio un suo ex collega di lavoro.
Per esempio, la presenza dell’Iveco furgonato del carpentiere vicino alla casa e alla palestra di Yara la sera in cui la ragazzina scomparve. Ripreso dalle telecamere, confrontato con altri 2 mila, alla fine quello che si vede andare avanti e indietro in un quadrilatero di non più di 500 metri di superficie nei 45 minuti che precedono la scomparsa della ragazzina, è proprio quello di Bossetti, grazie a un catarifrangente anomalo fatto analizzare negli stabilimenti Iveco di Torino.
Ci sono poi le tracce della cella telefonica del muratore che tra le 17,45 e le 18,47 di quel 26 novembre 2010, pur non avendo ragione di essere a Brembate, visto che quel pomeriggio non andò a lavorare in cantiere, agganciano la zona in cui si trova Yara.
Infine, gli investigatori dei Ros, hanno trovato un filo di tessuto sintetico sui calzoncini elastici della bambina che corrisponde al tessuto del sedile del furgone di Bossetti, dimostrando che lei, su quel mezzo, ci sarebbe salita davvero e, probabilmente, volontariamente, se si considera la testimonianza di una signora che un mese prima aveva visto Yara nel parcheggio vicino alla palestra seduta sull’auto di Bossetti.
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