DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Giovanni Bianconi per corriere.it
C’è il capomafia mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino che – mentre la Chiesa si adoperava per la beatificazione della sua vittima – nonostante l’ergastolo è riuscito a tornare libero (almeno di giorno) e «ricostituire e ricompattare» la cosca guidata in passato.
E c’è l’avvocata che a gennaio aveva presentato l’istanza per togliere il «41 bis» al boss della Cosa nostra agrigentina Giuseppe Falsone, respinta dalla Cassazione, e ora si ritrova lei in carcere con l’accusa di avere «dismesso la toga e indossato i panni della sodale mafiosa»; ospitando ed partecipando, nel suo studio legale, ai summit tra «uomini d’onore» che discutevano le strategie e cercavano l’approvazione del super-latitante Matteo Messina Denaro.
L’ultima inchiesta della Procura di Palermo guidata da Francesco Lo Voi, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Claudio Camilleri, Geri Ferrara e Gianluca de Leo, svela le trame della mafia di provincia che riesce a eludere le restrizioni del «carcere duro» per comunicare da dentro a fuori (e viceversa) progetti e decisioni, grazie al ruolo di una professionista che – accusa la Procura – s’è messa a disposizione del clan.
auto del giudice rosario livatino
Il mandante del delitto Livatino
Tra gli arrestati spicca il nome di Antonio Gallea, un boss della stidda (la mafia «indipendente» da Cosa nostra) di Canicattì, condannato al carcere a vita per aver autorizzato – dalla cella in cui era rinchiuso già allora – l’eliminazione del giudice Livatino.
Nel 2015, nonostante l’ergastolo, Gallea ha ottenuto dal tribunale di sorveglianza di Napoli il beneficio della semilibertà, potendo uscire di prigione al mattino per rientrarvi la sera; i giudici avevano stabilito che non si poteva pretendere da lui alcuna collaborazione con la giustizia perché sull’omicidio del «giudice ragazzino» indagini e processi avevano già chiarito ogni dettaglio, e così avevano superato la preclusione delle misure alternative per chi scinta il cosiddetto «ergastolo ostativo».
Ma stando a quanto scoperto nell’indagine palermitana, l’accesso a quel beneficio di legge non è servito al reinserimento sociale del detenuto, bensì a «ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati e accertati in passato, e rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della stidda». Il lavoro degli investigatori del Ros ha permesso di ricostruire due fasi dei rapporti tra la stidda e Cosa nostra agrigentina, prima di contrapposizione e poi di collaborazione.
Le microspie e altri riscontri hanno consentito di stabilire che la mafia tradizionale e quella autonoma «hanno sancito un accordo di pace tuttora vigente, e che gli esponenti delle due organizzazioni, pur continuando a guardarsi con diffidenza, hanno qualificati e diretti rapporti personali finalizzati alla risoluzione di problematiche e alla individuazione/spartizione delle attività criminali da perpetrare sul territorio». Il bottino al quale puntano le due mafie sono gli affari milionari del mercato ortofrutticolo nella zona di Canicattì (a cominciare dalla famosa Uva Italia), considerato «uno dei pochi settori produttivi nella provincia di Agrigento».
Avvocata e boss
Nella ricostruzione dei pm di Palermo, l’avvocata Angela Porcello (che ha il proprio studio legale di Canicattì in via Rosario Livatino) è «assurta pian piano addirittura al ruolo di vera e propria organizzatrice del mandamento mafioso» della cittadina. Sicuri di non poter essere intercettati perché protetti dal mandato professionale esercitato dalla donna, i capimafia locali hanno svolto nel suo ufficio «decine di riunioni rendendosi protagonisti, in condizioni di assoluta genuinità, di lunghi dialoghi aventi ad oggetto affari e vicende di esclusiva e riservatissima connotazione associativa». L’avvocata sarebbe stata anche la chiave per aprire gli spazi di dialogo tra i capimafia detenuti al «41 bis».
Nel loro atto d’accusa i pm sottolineano che attraverso di lei i boss «riuscivano a entrare in contatto, dialogare tra loro e, in alcune occasioni, financo a scambiarsi informazioni finalizzate ad assicurarsi un canale di informazione con l’esterno».
Su indicazione del capo-provincia agrigentino Falsone, anche il capomandamento di Trapani e il capo della famiglia di Gela avevano nominato l’avvocata Porcello difensore di fiducia, con il «manifesto scopo di potere anche loro usufruire del ruolo di messaggero verso gli altri sodali (in libertà e detenuti), che la donna svolgeva per conto dell’associazione». In uno dei colloqui intercettati nel supercarcere di Novara si vede il boss che, mentre parla con il suo legale, si ritrae dietro una sorta di tramezzo, per evitare che si possa capire ciò che stava dicendo, a voce bassissima, né dai gesti né dal movimento delle labbra.
L’ombra di Messina Denaro e la mafia Usa
Tra i destinatari del fermo ordinato dalla Procura palermitana c’è pure Matteo Messina Denaro. I dialoghi registrati dalle microspie dei carabinieri dimostrano che c’è un canale di trasmissione attivo tra l’ultimo boss stragista ancora latitante (dal 1993) e i capi delle cosche agrigentine.
A lui i capimafia della provincia «riconoscono unanimemente l’ultima parola sull’investitura ovvero la revoca di cariche di vertice all’interno dell’associazione». C’era infatti bisogno del suo beneplacito per l’estromissione di un «uomo d’onore» dal mandamento di Canicattì, e questo dimostra – concludono i pm – che «Messina Denaro è a tutt’oggi in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere in Cosa nostra, nonostante la sua eccezionale capacità di eclissamento e invisibilità».
La centralità e l’importanza dei clan agrigentino vengono ribaditi anche dai contatti con la mafia statunitense. L’inchiesta ha portato alla luce una missione di «emissari americani della famiglia Gambino di New York», i quali «si sono recati nei mesi scorsi a Favara per proporre a Cosa nostra siciliana l’attivazione una lucrosa e articolata sinergia criminale transnazionale». Finalizzata, si sospetta, al riciclaggio. In passato queste stesse famiglie avevano programmato attività comuni anche con uomini di vertice della camorra napoletana come Paolo Di lauro, detto Ciruzzo ‘o milionario.
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